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  • Ecco come la Cina ha sconvolto il calcio
Ecco come la Cina ha sconvolto il calcio

Ecco come la Cina ha sconvolto il calcio

  • Pippo Russo

Metodo Shock and Awe. L’assalto dei capitali cinesi al calcio globale avviene con una forza talmente ostentata da sfociare nell’intimidazione. Quasi che non bastasse affermarsi come una nuova potenza, ma si dovesse anche incenerire la concorrenza: fine del mercato concorrenziale, arriva una nuova Razza Padrona. La Cina del calcio è davvero vicina perché ormai fa razzia nei mercati europei, ma al tempo stesso è lontanissima perché porta un modello di business calcistico alieno rispetto a quelli cui siamo adusi. Servirà del tempo per sapere se siamo davanti a un cambiamento nelle gerarchie del capitale globale del calcio, e se al di là dei fuochi d’artificio questo modello cinese saprà darsi solidità e continuità nel tempo. Ma indipendentemente dalle verifiche di medio-lungo periodo, vi sono delle considerazioni che possono essere già fatte dopo la chiusura del calciomercato invernale 2016. E queste considerazioni riguardano il traumatico mutamento di panorama mentale, determinato dallo strapotere economico-finanziario dei club cinesi e dal suo impatto sugli equilibri imperanti nella Vecchia Europa. Equilibri che erano già stati ridisegnati in modo profondo dopo la svolta degli anni Novanta. Da quel ridisegno c’erano al tempo stesso i germi della rivoluzione e del suo stesso superamento. Ciò che costituisce una dinamica magistralmente illustrata nell’Ottocento da un signore tedesco e barbuto, nativo di Treviri, che in tempi recenti si è avuto fretta di consegnare al museo del pensiero politico e economico perché ritenuto inattuale. In quella fase d’inizio anni Novanta, con l’ingresso delle tv a pagamento nel business, si è imposta una brutale New Economy. Da cui è derivata la mutazione genetica del movimento calcistico internazionale. Si è affermato un linguaggio che parla di brand, bacini d’utenza, economie di scala e conquista di nuovi mercati. Il che ha avuto una conseguenza cruciale: il primato della logica economica su quella agonistica, con conseguente minaccia alla struttura democratica del calcio.


Da questo mutamento, tanto per fare l’esempio più clamoroso, è nata una riforma della Champions League che premia oltremisura i paesi economicamente e calcisticamente più forti (e al loro interno i club più ricchi e appetibili sul piano mediatico e del marketing), lasciando a margine quelli dalla seconda fascia a seguire. Tale cambiamento è stato impresso dal governo del calcio europeo in un momento di grande debolezza – era ancora viva la ferita della rovinosa sconfitta causata dalla sentenza Bosman –, allo scopo di tacitare le voglie di secessione dei grandi club europei, pronti a loro volta a organizzare una Superlega continentale sganciata da Uefa e Fifa. Fra l’altro, non molti ricordano che a tracciare il progetto il progetto di Superlega Europea per club era stata una società che si chiamava Media Partners. Oggi il soggetto in questione ha cambiato nome e si chiama Infront, ma questo è un altro discorso.

La grande trasformazione dell’economia globale del calcio avviata negli anni Novanta ha dunque determinato una mutazione anche in termini sociali e culturali per l’intero movimento. Tutto ciò è stato un bene o un male? Interrogativo la cui risposta non è essenziale, anche perché ciascuno sul tema ha la propria idea, e ogni volta si finisce col dividersi e reciprocamente accusarsi fra nostalgici e modernisti. Il punto è un altro. E riguarda il fatto che, una volta affermata la logica per cui è la forza economica a fare da driver, non poteva non verificarsi ciò che vediamo succedere adesso. Chi ha il denaro si compra il potere. E non si limita a annettersi gli attori principali dello spettacolo, ma prova a impossessarsi dello spettacolo tout court. In questo momento è la Cina a disporre d’una quantità esorbitante di capitali, sia economico-finanziari. E li usa facendo valere la medesima Legge del più Forte che a partire dagli anni Novanta gli attori più potenti del calcio occidentale hanno imposto a proprio beneficio. Non è la prima volta, nella storia, che il guinzaglio passi dalla mano al collo trasformandosi in cappio. E adesso non vedo proprio il motivo per cui ce ne si debba lamentare. Nulla dà la certezza d’essere eternamente impero senza il rischio di scadere a provincia.

C’è un altro aspetto cruciale sul quale bisogna riflettere, e riguarda la peculiarità del nuovo potere cinese sul calcio e il modello che esso afferma. Si tratta di un modello pensato per il dominio assoluto della macchina calcistica globale. In questo senso la Cina, rispetto a altri Paesi che hanno recepito con ritardo il calcio, sta percorrendo una strada diversa. Il termine di paragone più appropriato è quello degli Usa, paese che dopo quasi un secolo di diffidenza ha accolto soltanto negli anni Novanta il calcio nello spettro della propria cultura sportiva nazionale. Un tentativo d’impianto forzoso venne fatto a metà degli anni Settanta, quando la lega professionistica NASL provò a importare grandi calciatori stranieri a fine carriera. Ciò che si ottenne fu nulla più che un cimitero degli elefanti, con fallimento del progetto. Fu necessario costruire con pazienza una base, e anche il mondiale casalingo organizzato a metà anni Novanta fu una tappa intermedia che ha portato a oggi. Adesso negli Usa c’è un movimento calcistico di buon livello, con una rappresentativa nazionale mediamente competitiva e in crescita. Ma dal gigantismo NASL a adesso è trascorso circa un quarantennio. Un lasso di tempo che i cinesi non vogliono aspettare. Certamente non è disposto a farlo il presidente Xi Jinping, grande appassionato di calcio che vuole trasformare il proprio paese nella prima potenza pallonara del XXI secolo. E per farlo sta mobilitando tutte le leve politico-economiche disponibili all’interno di un sistema che partendo da una mentalità occidentale continuiamo a non capire. Perciò siamo destinati a soccombere di fronte a esso.

In Cina la modernizzazione capitalista si è realizzata in piena sintonia con una presenza tuttora pesante del dirigismo statale. Ciò che da queste parti apparirebbe un totale non senso, a quelle latitudini è un sistema perfettamente funzionante. I grandi capitani d’azienda, quelli che hanno accumulato fortune da primi posti nelle classifiche mondiali dei super-ricchi, hanno scalato i vertici sotto l’ombrello del potere centrale. In queste condizioni, i desiderata che giungono dai vertici del potere statale sono per i capitani d’industria più che una moral suasion; rappresentano precisi indirizzi di politica economica da realizzarsi attraverso un irripetibile mix pubblico-privato. Una forma di patriottismo economico. In questo fase storica i principali esponenti del capitalismo cinese sono ben coscienti che il presidente – cioè la figura che sta a capo della mega-macchina politico-economica da cui hanno origine le loro fortune – richiede come un impegno patriottico l’investimento nel calcio per sviluppare un forte movimento nazionale. Sanno pure che XI Jinping non può aspettare mezzo secolo, come è stato nel caso degli Usa; e che alla costruzione di una base di praticante su cui fondare il futuro bisogna associare un campionato nazionale che sia subito del massimo livello. Non composto da vecchie glorie come nel caso della Indian Premier League, ma piuttosto da calciatori nel pieno della carriera agonistica. Perciò eseguono, comprandoli a prezzi fuori mercato e ammazzando la concorrenza degli europei, che si ritrovano trafitti dalle loro stesse armi. Così evolvono e declinano i grandi sistemi economici, e il calcio globale ne è soltanto l’ennesima conferma.

@pippoevai
 


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