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  • Grande e pazza allo stesso tempo: la vera Inter nasce con Herrera

    Grande e pazza allo stesso tempo: la vera Inter nasce con Herrera

    • Antonio Martines
    Il tratto distintivo dell'Inter e degli interisti è sempre stato il paradosso, perché la loro storia ha sempre oscillato tra la grandezza e la pazzia, ma senza mai scivolare nella tragedia come invece è accaduto alle rivali di sempre Juve e Milan (retrocessioni in B). E forse proprio in questo risiede il fascino dell'Inter, perché nel corso dei decenni è stata sia GRANDE che PAZZA.  Una parabola lunga e inspiegabile che affonda le proprie radici proprio alla fine dell'indimenticabile ciclo di Moratti senior quando in pochi giorni, tra la fine di maggio e l'inizio di giugno di quel lontano 1967 i ragazzi di Helenio Herrera persero nell'ordine: la finale di Coppa dei Campioni contro il Celtic ( 25 maggio), l'ultima partita di campionato col Mantova, corredata dalla leggendaria papera di Sarti (1 giugno) e infine anche la semifinale di Coppa Italia con il Padova (7 giugno).

    Forse è proprio nell'arco di quelle due settimane di quella tarda primavera del 1967 che l'Inter passa dall'essere grande al diventare pazza, ma all'epoca nessuno lo aveva ancora capito. Perché da li in poi, nel corso dei decenni successivi, collezionarono di tutto, dalle sconfitte più clamorose ( lo 0-1 col Lugano; il 5 maggio 2002; lo 0-6 nel derby), alle vittorie più incredibili, ( lo scudetto dei record del 1989; il 3-0 contro l'Aston villa dopo lo 0-2 dell'andata nella coppa Uefa del '91; Il Triplete del 2010), il tutto attraversando gli anni '80, decennio che la Beneamata apre e chiude con due scudetti (1980 e 1989) ma dal quale rischia di non uscirne viva, come cantava Manuel Agnelli nella famosa canzone degli Afterhours. Quello infatti fu il decennio in cui l'Inter incappò nell'incantesimo del Real Madrid, che da sogno si tramutava irrimediabilmente in incubo. Come dimenticare infatti le epiche rimonte delle merengues di quegli anni (1-0, 0-2, C.Campioni 1981; 1-1, 1-2, C.Coppe 1983; 2-0, 0-3 C.UEFA 1985; 3-1, 1-5 C.UEFA 1986), tutte partite che contribuirono a creare il mito del miedo escenico del Bernabeu. Ma soprattutto fu il decennio dello scudetto dei record, che sembrò portare nuove promesse di gloria mondiale e invece alla fine rimase l'ultimo per troppo tempo.

    Tanto che prima di rivederne uno, passarono 16 lunghi anni, un lasso di tempo interminabile in cui ne succedevano di tutti i colori: dalla caduta del comunismo all'avvento della globalizzazione, dall'invasione dell'Iraq all'Undici Settembre, dall'avvento di internet all'uso dei cellulari... Insomma, la storia dell'umanità tutta galoppava meno che quella dell'Inter, la quale in quei tre lustri fece letteralmente disperare la sua esigente platea di tifosi, tanto che arrivarono a fare un gesto di inaudita pazzia – ci risiamo – come quello del famigerato lancio (2001) del motorino dal terzo anello di San Siro. Eppure nonostante tutto, proprio in quei lunghi e difficili anni arrivarono ben 3 coppe UEFA (1991, 1994,1998) - un  paradosso del palmares della Beneamata che affronteremo tra breve - la dimostrazione che l'Inter è rimasta sempre e comunque uno dei club più famosi e vincenti nella storia del calcio e che ha sempre goduto di una passione inestinguibile. Una passione però, davanti alla quale, non si riesce a trovare quello strano legame con la sofferenza e il masochismo allo stato puro, che a volte si trasforma addirittura in terrore ingiustificato; uno strano cortocircuito causato da un continuo balletto tra l'esaltazione più assoluta e la delusione più profonda. Una stranezza che mal si concilia con quello che dovrebbe essere il destino manifesto di uno dei club più gloriosi del mondo, anche perché, parliamoci chiaramente, le sofferenza calcistiche vere, dovrebbero essere altre; eppure nel DNA del tifoso nerazzurro la parola sofferenza sembra esserci eccome.

    A tal proposito un indizio alquanto curioso ci viene proprio dal palmares dell'Inter, la quale pur essendo la terza squadra d'Italia per blasone, è staccata come numero di trofei complessivi rispetto agli acerrimi rivali juventini e milanisti. I nerazzurri infatti possono vantare un totale di 39 trofei nella loro storia. Tanta roba certo, ma in fin dei conti anche poco, se rapportato ai 52 del Milan o ai 61 della Juve. Eppure qui scatta di nuovo il paradosso, perché in quei 39 trofei trovi 18 scudetti (gli stessi del Milan) ma anche 3 Coppe dei campioni,(una in più della Juve). Insomma l'Inter non vincerà spesso come i diretti rivali, ma alla fine riesce a portare a casa i trofei che contano nel momento giusto. In tal senso il Triplete ha segnato la storia recente nerazzurra, un caso unico nella storia del calcio italiano, ed è proprio per questo che gli interisti ne vanno cosi fieri. Una diversità quella degli interisti che è difficile da spiegare dal punto di vista storico, perché è come se i nerazzurri avessero sapientemente scelto di spalmare con parsimonia la loro gloria nell'arco della storia del calcio.

    Ma al di là dei numeri e dei trofei la vera anima dell'Inter la trovi soprattutto in quei magnifici cantori (Celentano, Vecchioni e Ligabue) che con le loro canzoni hanno saputo raccontare meglio di chiunque certe suggestioni nerazzurre. Eravamo in 100.000, Luci a San Siro e Una vita da mediano, canzoni che raccontano ed esprimono al meglio i sentimenti e i sogni degli interisti. Un'anima fatta di classe e intelligenza ma che sapeva anche toccare vette di un'ironia unica e inarrivabile come quella del mitico Peppino Prisco che con le sue battute al vetriolo faceva ridere tutti,persino coloro che erano vittime delle sue battute ("Prima di morire mi faccio la tessera del Milan, cosi sparisce uno di loro). Ma l'Inter è anche e soprattutto il manifesto di quel dopoguerra che nei dorati anni '60 trova la sua più alta consacrazione con il boom economico e quei valori di riscatto e affermazione sociale che fecero dell'Italia un paese che poteva tornare a guardare a testa alta anche il resto d'Europa. L'Inter è l'alfiere sportivo di quel particolare momento storico e forse anche cosi si spiega quella sua inconfondibile anima dell'alta borghesia milanese, caratterizzata dalla voglia di primeggiare ma con eleganza ed esclusività, il tutto magari condito da un pizzico di arroganza, tratto tipico del vero Bauscia; il quale oltre alla semplice vittoria ha sempre preteso dei grandi protagonisti dentro i colori nerazzurri e in tal senso i Moratti (padre e figlio), come i grandi allenatori ( Herrera, Trapattoni e Mourinho) e soprattutto i grandi fuoriclasse come Meazza, Suarez, Facchetti, Mazzola, Corso, Matthaus, Ronaldo e Zanetti sono stati indubbiamente tutti grandi interpreti di quegli affascinanti colori che hanno caratterizzato in un modo unico quella maglia cosi speciale, tanto da essere stata anche la prima nella storia ad arrivare nello spazio (maggio 2011) grazie al nostro astronauta Paolo Nespoli, che la indossò nel corso della missione MagISStra . Una maglia scura e affascinante come quella notte del 9 Marzo 1908, quando al ristorante l'Orologio di Milano, si riunirono come una conventicola di massoni un gruppo di 43 ribelli fuoriusciti milanisti che decisero su consiglio dell'artista futurista Giorgio Muggiani di adottare il nero, l'azzurro e l'oro, uno splendido mix di colori dal quale nacque poi l'inconfondibile logo dell'Internazionale FC e soprattutto quella casacca a strisce nere e azzurre, talmente iconica che chiunque guardi certe foto della grande Inter degli anni '60 rimane ipnotizzato da quei colori notturni, cosi freddi e vividi allo stesso tempo, come certe notti invernali di luna piena.

    @Dragomironero

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