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  • Icardi, tutti colpevoli tranne lui: Dalai, editore nerazzurro, racconta la verità

    Icardi, tutti colpevoli tranne lui: Dalai, editore nerazzurro, racconta la verità

    • Michele Dalai, il nero e l'azzurro
    Faccio l’editore. Mea culpa, faccio l’editore. Pubblicare libri è un modo di comunicare, prendersi la responsabilità di confezionare l’opera dell’ingegno altrui e diffonderla. Già, l’ingegno. Una delle più grandi illusioni, uno dei peggiori equivoci sull’editoria è che il libro sia un prodotto culturale. Il libro è un format, una bella risma di carta stampata e rilegata che delega i suoi quarti di nobiltà al contenuto. Non il libro in quanto libro, ma il libro in quanto scatolone di parole. Questo per risolvere almeno il parte l’arcano, perché se non ne avete mai comprati per timore reverenziale o per l’orrore sacro della parola scritta, sappiate che l’esercizio di lettura che fate quotidianamente davanti al monitor del vostro computer o allo schermo di uno smartphone equivale esattamente, con qualche cautela in più per la vostra vista, a quello che fareste con un libro in mano. Ci sono buoni libri e pessimi libri, ci sono libri che contengono romanzi, saggi, ci sono biografie, poesie, testi teatrali, manuali di diete, di giardinaggio, c’è il kamasutra illustrato e quell’infinita gamma di possibilità che la composizione di un testo offre.

    Poi ci sono i libri come questo. Quando ho iniziato a pubblicare le biografie e le autobiografie dei calciatori inglesi in Italia pareva non ci fosse mercato per i prodotti editoriali di  qualità se legati allo sport. Di sport, tolti i maestri (Brera, Arpino, Viola), si scriveva poco e male e quasi mai erano autobiografie. La passione tutta anglosassone per la buona scrittura giornalistica e per il racconto dello sport produceva da anni piccoli e grandi capolavori, così traducemmo Tony Adams, George Best e poi passammo agli italiani, prima Lucarelli, poi Cosmi e Di Canio, sempre con quello stile, sempre cercando di portare alla luce qualcosa di inedito e sconosciuto di vite altrimenti vissute sotto i riflettori. Funzionò molto bene e funzionò anche per altri. Il giochino della biografia di successo però regge finché c’è vita. Raccontare una vita può essere semplice o molto complesso, può diventare un racconto asciutto e duro o un capolavoro di narrativa tonda e sofferente come Open, la vita di Agassi mirabilmente scritta da un Premio Pulitzer come Moehringer. C’è spazio per ogni sfumatura, purché appunto ci sia vita da raccontare e qualità della prosa. Perché se mai vi fosse venuto il dubbio, a far la differenza è proprio la guida di chi davvero scrive questi libri, che nel 90% dei casi non è l’atleta-soggetto. Si chiama ghost writer ed è un lavoro delicato. Scrivere come qualcun altro parla, farlo sottraendosi alla scena, sparire dal proprio racconto. Ci sono i premi Pulitzer e ci sono quelli che ne hanno fatto una professione senza emozioni, la catena di montaggio delle biografie degli sportivi. Anzi, delle autobiografie in appalto. Perché pur se un piccolo affare rispetto alla mostruosità degli ingaggi, le autobiografie degli sportivi spesso vendono bene e ci sono editori e giornalisti che ne hanno fatto un mestiere, una via l’altra a getto continuo e pazienza se non c’è anima, l’importante è pubblicare-presentare-vendere.

    Il problema è che chi scrive spesso diventa più protagonista del protagonista e forza le cose  e i fatti per piegarli alla bellezza del racconto, in particolare quando c’è poco materiale su cui lavorare. Non so chi sia il ghost writer di Icardi e ignoro il nome dell’editor del suo libro, della persona che ha curato la produzione del testo dalla firma del contratto fino alla pubblicazione, ma se potessi parlargli ora gli chiederei: perché?

    Chiedere una biografia, chiedere a un 23enne di raccontare la sua vita è come chiedere a un maratoneta di tirare le somme dopo i primi 2 km di corsa: si può fare ma è un po’ presuntuoso. Ma presumendo di vendere bene e nel deserto di copie che è il mercato editoriale di oggi, vale tutto e quindi ci sta che Mauro Icardi racconti la sua vita. I fatti di Reggio Emilia sono noti, la dinamica lo è un po’ meno e la ricostruzione di Icardi può e essere vera o fantasiosa, questo lo sa solo chi era lì ed ha assistito alla scena. Solo che la ricostruzione di Icardi è scritta con i piedi e ci sono due o tre dettagli che fanno saltare la consecutio e forse sono stati riportati ad arte per creare la delirante situazione in cui tutti noi ci siamo trovati ieri.
    In sintesi: Icardi dice che mentre la curva (entità astratta), lo minacciava e strappava a un bambino per ributtarla in campo la maglia che lui gli aveva donato, lui ha pensato di chiamare cento amici argentini per fare giustizia. Poche righe dopo Icardi si scusa per il pensiero violento e dice di aver chiarito l’equivoco.

    Per l’esperienza che ho, me lo riesco a immaginare Icardi che racconta questo episodio gonfiando il petto, si dimentica di averlo raccontato e non rilegge le bozze, con il libro che va in stampa senza correzioni e lui che non ha idea di aver detto quelle cose. Per l’esperienza che ho il ghost writer ha caricato per bene la mano e ha colorito l’episodio, l’editor ne è stato felice e l’editore ancora di più, perché l’idea di avere un libro brutto, sporco e cattivo piace a tutti. Siamo fatti così. Quindi c’è Icardi che racconta una cosa e la rivendica come vera, un’intera filiera che la trova utile alla promozione del libro e una società che quel libro non lo riceve in anticipo e non lo legge nemmeno. Poi il libro esce e succede quel che è successo perché chi dovrebbe leggerlo lo cita senza averlo fatto e nessuno si accorge che dopo la trovata astuta del leone ferito e arrabbiato c’è il lieto fine.

    Pubblicare libri intelligenti è una piccola grande responsabilità. Si può vendere poco o tanto, ci si può spingere fino alle Colonne d’Ercole dei generi più commerciali così come salire sulle vette dell’eremitaggio editoriale e scegliere di parlare a pochi, ma c’è sempre un punto d’onore per chi pubblica libri e non intende avere solo il ruolo del tipografo ben retribuito: la qualità del prodotto. L’autobiografia di Mauro Icardi è un libro esile come la sua età, fragile e pieno di furbate retoriche, usate ad arte per riempire il vuoto delle pagine. Perché a 23 anni hai vissuto troppo poco per riempirle. Gira voce che verrà ritirato, forse è già stato ritirato, è brutto che un libro venga ritirato e tolto dal commercio, censurare o bruciare i libri riporta a tempi che magari per alcuni nostalgici che stanno in curva furono belli, per tutti gli altri un orrore. Ma se tutti noi, se noi editori riuscissimo a pensare che una bella autobiografia fa meno danno e porta più amore di una cosa messa insieme alla meno peggio, questo sarebbe un mondo migliore. Magari pochissimo miglior ma migliore.

    Chiusa la questione editoriale, tutta la mia più ferma solidarietà umana a Mauro Icardi, perché essere costretti ad aver paura di rientrare a casa è terribile. Piacerebbe dire che è tutto un equivoco e che basterebbe leggere meglio il testo, ma purtroppo non è così, c’è una barriera insormontabile tra chi si sente un po’ più importante dell’Inter e chi si sente un po’ più importante di tutti gli altri tifosi dell’Inter. In mezzo ci siamo noi, quelli che prima o poi sceglieranno di passare domeniche più serene, magari leggendo un libro, magari non quello di Icardi.
     

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