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  • Jihad nel pallone: l'integralismo islamico e il calcio, un rapporto complesso e problematico

    Jihad nel pallone: l'integralismo islamico e il calcio, un rapporto complesso e problematico

    • Michelangelo Freda
    13 Maggio 2016, Samarra. Nella città irachena, circa 100 km a nord di Baghdad, sedici persone perdono la vita e venti restano ferite. L’attentato è rivendicato dall’Isis, e le vittime sono tutti supporters del Real Madrid (per la precisione appartenti al club Iraq Blancos), riunitisi per tifare la propria squadra nella finale di Champions League contro l’Atletico Madrid. Nel locale scoppia il panico, tra colpi di mitra, vittime che giacciono al suolo e fughe precipitose; per molti fondamentalisti islamici, infatti, il calcio è un tabù, e assistere a un evento del genere – per di più internazionale – è severamente vietato. L’avversione per questo sport affonda le radici nel passato coloniale e si trascina ancora oggi in una concezione del mondo estrema, fatta di bianco e nero, in cui esso rappresenta una tradizione occidentale inconciliabile con la dottrina islamica (o, per meglio dire, islamista). Samarra non è stato dunque l’unico episodio di violenza collegato al pallone, e anzi non sono mancati casi simili: sempre in Iraq ad esempio, più precisamente nella città di Mosul, nel cuore dei territori comandati dall’Isis, furono giustiziati tredici ragazzi per aver visto una partita di calcio (in programma c’era Iraq vs Giordania di Coppa d’Asia, finita 1-0 per i padroni di casa).

    Non c’è però solo l’Isis. Spesso la galassia jihadista tende a fare del calcio un simbolo della corruzione occidentale contro cui combattere; in Somalia ad esempio nel 2010 Al-Shabaab – sentitosi minacciato dal progetto Put down the gun and pick up the ball, organizzato dalla Somalia Football Federation con la compartecipazione della FIFA, e volto a contrastare il fenomeno dei bambini soldato – minacciò la popolazione nell’intento di dissuaderla dal guardare le partite di calcio. Al di là del passato coloniale, la diffusione del calcio in Medio Oriente fu spesso accolta con sospetto e scetticismo dalle alte sfere religiose, che fossero di ispirazione sunnita o sciita; esso infatti era visto come una gigantesca arma di distrazione di massa che potesse distogliere il fedele dall’osservanza del Corano, quando non addirittura come uno svago inconciliabile con i precetti del testo sacro. In Arabia Saudita, nel 2003, un’interpretazione estrema del Corano stesso portò lo sceicco Abdallah Al Najdi ad emettere una sentenza (fatwa) nella quale fu sì ammessa la competizione calcistica, ma a patto che non venissero utilizzato termini di lingua straniera, che si giocasse in un numero inferiore o superiore ad undici e che le squadre fossero tre o una sola; vigeva poi il divieto dei calzoncini corti e dei colori vivaci così come erano proibite le linee bianche sul terreno di gioco, la traversa nella porta (composta da solo due pali), le esultanze e la presenza del pubblico. Tutto ciò si inscriveva in un rifiuto dogmatico e radicale delle regole del calcio internazionale, e veniva meno la stessa valenza di questo sport, degradato a nient’altro che preparazione fisica per la guerra santa.
     
    Non tutto il mondo integralista islamico però vede nel calcio un attività inconciliabile con i dettami religiosi, e diversi membri delle organizzazioni jihadiste furono appassionati di calcio europeo, anche nei “piani alti”: da Osama Bin Laden, secondo molti un tifoso dell’Arsenal di Wenger, al capo del sedicente Stato Islamico Abu Bakr al-Baghdadi, che a quanto riporta il sito Telegraph era una giovane promessa del calcio arabo. E a proposito di Daesh, nella colossale macchina della propaganda – di stampo squisitamente occidentale – messa in moto dai miliziani, non poteva mancare il calcio. Così è stato montato un video in cui si si raffigurava il famoso nazionale francese Lassana Diarra come un combattente jihadista in Siria; da qui si è innescato un contenuto virale in rete, fino alla ovvia ma doverosa smentita da parte dell’avvocato del calciatore: «Lass non ha mai messo piede in Siria».
     
    La passione per il calcio è tuttavia difficile se non impossibile da estirpare, e non potendo bandire il fenomeno si è pensato bene di assimilarlo ed omologarlo, fino al punto di modificarne le regole. È quanto accaduto nell’est della Siria, dove i miliziani di Daesh hanno deciso di rendere fuorilegge gli arbitri di calcio in quanto rappresentanti di regole della FIFA “in violazione dei comandi di Allah”. Il tutto sarebbe partito da Deir el-Zor, in cui secondo l’Osservatorio Siriano per i diritti umani – un’istituzione con sede nel Regno Unito, è bene precisarlo, malgrado sia rilanciata da tutte le agenzie di stampa occidentali – i comandati jihadisti avrebbero stilato un insieme di regole basate sulla legge della Sharia, quindi rese conformi al diritto islamico, con l’intento di evitare interferenze del “diritto estero” (per l’Isis quello della FIFA è a tutti gli effetti diritto estero). Sempre secondo l’Osservatorio sarebbe stato introdotto un sistema di Qisas (traducibile col nostro detto “occhio per occhio”) per i calciatori infortunati, consistente nel poter richiedere un risarcimento o una sanzione nei confronti dell’avversario ritenuto responsabile del danno; ciò si richiama al sistema di giustizia retributiva della Sharia, per la quale le vittime possono richiedere un compenso o addirittura una vendetta per il “torto” subito. Queste modifiche sono avvenute prima dell’inizio del campionato jihadista, svoltosi nel territorio della stessa città di Deir el-Zor. A Mosul invece, liberata nell’estate 2017, le testimonianze raccontano di come fosse bizzarro l’intervento jihadista in materia sportiva, volto a vietare l’esibizione di stemmi delle squadre di calcio, come ad esempio i simboli di Real Madrid o Barcellona, o di marchi come Nike e Adidas, false idolatrie dell’Occidente, definiti “loghi infedeli”. Si riporta inoltre il divieto di utilizzare pantaloncini corti, e per finire il curioso veto all’utilizzo del fischietto durante le partite poiché “il suono attirerebbe i diavoli.”
     
    La politica dell’Isis nei confronti del calcio è però ormai guidata principalmente da opportunismo. Pur disprezzando le radici e lo sviluppo del gioco, i miliziani hanno compreso come esso potesse trasformarsi in un enorme megafono, strumento di propaganda se non addirittura di arruolamento per la causa della jihad. Nell’Egyptian Premier League ad esempio, la massima categoria egiziana, l’Ismaily Sporting Club ha la particolarità di avere sugli spalti dei supporters soprannominati Yellow Dragons. Come capita che in Europa alcune organizzazioni politiche tentino di egemonizzare le curve, dettandone contenuti e slogan radicali, così avviene qui con l’integralismo islamico. Lo stadio in questo senso genera pubblicità a costo zero alle fila jihadiste, sfruttata sapientemente in veste “pop” e ultracontemporanea – basta vedere le t-shirt raffiguranti i personaggi più influenti della scena integralista islamica – ma non solo. Infatti, secondo numerose fonti, dagli spalti di questo stadio sarebbero partiti alcuni forgein fighters diretti al fronte, in Siria o anche in Iraq. Qui il campionato si è giocato regolarmente (ovviamente nelle zone non occupate). Anche in Siria il campionato è proseguito, concentrando le competizioni nelle zone governate dal presidente Assad per dare l’immagine di un Paese libero e sereno, con l’obiettivo di distrarre la popolazione dalla drammatica guerra contro il terrorismo.

    Gli integralisti non si sono tuttavia limitati a rapportarsi al fenomeno unicamente in Medio Oriente, ma anzi in diverse occasioni hanno tentato di colpire il calcio europeo. Anni fa a Giacarta nel mirino era finito il Manchester United, ma anche gli attentati del 13 Novembre 2015 a Parigi partirono dallo Stade de France, durante quell’ormai celebre Francia-Germania. Esattamente come per il Bataclan, lo stadio rappresentava per i terroristi un luogo in cui si riversavano le masse occidentali schiave dell’edonismo, colpevoli di aver dimenticato la spiritualità e di adorare falsi idoli. E probabilmente, al di là della teoria, è nella pratica che il calcio spaventa buona parte dei terroristi: sappiamo di come esso abbia fatto da ponte tra Paesi diversi, agendo più volte da strumento di diplomazia internazionale, e di come, oltre ogni retorica, il campo abbia sempre avuto il merito di unire. Questo non può far altro che allarmare gli integralisti, convinti che questo sport funga da un lato in Medio Oriente come cavallo di troia della colonizzazione culturale occidentale, dall’altro in Occidente come distrazione e falso mito per i musulmani residenti. L‘errore sta però alla base, ovvero pensare che il calcio sia proprietà del “nemico”: ebbene sarà scontato dirlo ma il pallone, nella sua essenza più profonda, non può essere altro che patrimonio dell’umanità.

    Tratto da www.rivistacontrasti.it

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