La crisi: cosa succede all'Argentina?
Fin qua ce avevamo pensato che il problema fosse nel manico. Ovvero in panchina. Il ct Tata Martino è stato - banalmente - un figurante mediocre al servizio dei boss dello spogliatoio e pure sfortunato (ha perso due Coppa America ai rigori, sempre contro il Cile); il suo successore - Bauza - si è rivelato una parentesi infelice. Fin qua tutti a dirci che - storicamente - l’Argentina fatica durante le qualificazioni. Ma la domanda resta la stessa: perché questi non sbaragliano la concorrenza come sarebbe lecito aspettarsi? Se consideriamo il talento puro, solo un’altra volta negli ultimi trent’anni, l’Argentina ne ha avuto tanto come oggi. Ci riferiamo all’Argentina del ’94, quella di Batistuta, Simeone, Redondo, Balbo, Caniggia, Chamot, Sensini e - ovviamente - dell’ultimo Maradona all’altezza della sua fama, convocato dalla Fifa per il Mondiale e poi fatto fuori, con una vera e propria esecuzione chirurgica, vedi alla voce doping. Non era potenzialmente così forte l’Argentina che vinse nell’86 - Maradona più Valdano e Burruchaga, più altri onesti mestieranti - non lo era l’Argentina che nel ’90 arrivò in finale con la Germania, non lo era - forse - nemmeno l’Argentina che tre anni fa è arrivata all’ultimo atto con la Germania. Oggi in meno ci sono Palacio e Lavezzi. In più Icardi e Dybala. La verità ci riconduce a una delle regole basilari del calcio: non basta mettere insieme una batteria di talenti per fare una squadra. L’Argentina di oggi ne è la dimostrazione. Resta un enigma, resta un mistero, resta una generazione che si guarda allo specchio e si vede bellissima, poi si volta e non si riconosce più.