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  • Napoli-Roma: musica e poesia da Volk a Maradona. Estetica di una partita

    Napoli-Roma: musica e poesia da Volk a Maradona. Estetica di una partita

    • Matteo Quaglini
    Per raccontare Napoli - Roma, partita storica del calcio italiano, ci servono sette passaggi, sette come i magnifici del cinema o le arti dell’uomo. Un viaggio nell’estetica di una gara di racconto come questa non può che iniziare dalla sua genesi, il 10 novembre 1929.

    A Roma, allo stadio Testaccio, si affrontano le squadre dei grandi attaccanti. Da parte romanista c’è Rodolfo Volk, fiumano e famoso per il suo detto “io non penso, io tiro” e dall’altra, una delle versioni migliori tra gli attacchi del Napoli di tutti i tempi, il trio Vojak, Sallustro I e Mihalic, capaci di 43 gol insieme in trenta partite, nel primo girone unico della serie A. L’allenatore del Napoli era William Garbutt, famoso nella galleria storica del campionato, per aver allenato il grande Genoa e insegnato calcio in due grandi capitali della repubblica del pallone, Roma e appunto Napoli. Questo inglese caricaturato dalla pipa e dal capello sbilenco, tratti dell’uomo anni ’20 e’30, sarà il primo dei tanti uomini, soprattutto in panchina, a raccontare le sfumature e i caratteri di una partita estetica e romanzesca. Se dovessimo così per romanzare appunto il racconto, usare le arti, allora diremmo che questa prima partita è l’architettura di Napoli – Roma, con grandi attaccanti e personaggi d’autore.

    Gli anni ’50, il secondo passaggio della storia, furono quelli dei fuoriclasse e non delle squadre. Tanto Il Napoli quanto la Roma schieravano campioni e artisti continentali e sudamericani. Qualche nome come nella pittura, altra arte, racconterà e figurerà come in quadro le loro gesta: Jeppson, Pesaola, Vinicio grandi attaccanti a scatenare le fantasie di Fuorigrotta oppure Ghiggia, Bronee, Selmonsson e Moro, anarchici e lunatici capaci dell’impossibile nel bene quanto nel complesso. Una nidiata di fuoriclasse artistici che per entrambi non costruirono squadre vincenti, perché i migliori risultati del decennio 1950-1960 furono un doppio 4° posto per il Napoli (’53-’58) e, un 3° posto per la Roma nel 1955, nell’anno in cui con il Gre-no-li, il Milan vinse il suo secondo scudetto del dopoguerra.
    Tutti questi personaggi non portarono titoli, ma emozioni forti sì. Quelle emozioni che poi sono tra i titoli più suggestivi della vita. Era così, perché emotivi erano quei giocatori. Tra loro, nelle file del Napoli giocava anche Manlio Scopigno che di emozioni da raccontare se ne intendeva e ben presto le avrebbe portate in Sardegna, nella Cagliari dei dioscuri, Riva e Domenghini.

    Le emozioni e l’estetica, e siamo all’arte del cinema, agli anni ’60 di Napoli – Roma. Quelli dell’estetica pura del gioco. Quelli della coppia inimitabile Sivori – Altafini che assieme ad altri due poeti della squadra, Cané e il grande capitano Juliano, esordirono tutt’insieme, in questa gara da romanzo, nell’ottobre del 1965 e anche allora, come oggi era l’ottava giornata, finì 0-0 strano per una partita che fa del gol il suo gesto più alto, l’attimo più bello e magico. I due grandi sudamericani continuarono a giocarla e a segnare due, tre volte mettendo il segno su grandi vittorie e vincendo il confronto tecnico con i grandi giocatori avversari come Joaquin Peirò da Madrid, Losi lo storico capitano della Roma, Angelillo e Pedro Manfredini che proprio alla fine di un Napoli – Roma fu aspramente criticato dalla stampa romana per non aver fatto vincere la squadra e aver mancato tre gol. Si proprio tre, come quelli che aveva segnato. Lui triplettista incallito. Grandi e suggestivi gli anni’60 anche per questo.

    Una partita non è grande e non è tale, se non ci sono i signori della panchina. I maestri, gli scultori della pietra grezza che è una squadra di calcio. Loro in questa partita hanno inciso e levigato giocatori, situazioni, risultati. Ci sono stati tutti, dagli zonisti radicali agli italianisti maestri della ricerca degli spazi avversari. Ci sono stati i vate di un gioco più aperto come Vinicio per il Napoli e Liedholm e gli strategici alla Ottavio Bianchi e alla Pesaola, petisso memorabile. Abbiamo avuto anche gli emotivi come Chiappella e Boskov e perfino è stata la partita dei grandi cultori del calcio locale, quello italiano come Bigon, Ranieri, Marchesi, Radice e degli ieratici alla Herrera o dei futuristi alla Eriksson, scultori a volte contradittori, del grande calcio internazionale, quello globale.

    Poi venne Diego. E fu poesia, la quinta arte di questa carrellata. A Napoli divenne icona e simbolo e fu per lui, come tornare in Argentina dopo le tristezze di matrice barcellonista. El Diez, il controverso Diego, il magico Maradona giocò 12 Napoli – Roma, vincendone solo 2, pareggiandone 6 e perdendone 4. In sostanza non fu la sua partita, il suo attimo. Ed anche questo racconta la magia di questa imprevedibile gara dove, il giocatore più forte, il fuoriclasse indiscusso vince poco. Nel farlo però lascia due segni. Il primo è nell’ottobre del 1986 quando raccogliendo con l’esterno sinistro un passaggio di Giordano, usa il suo piede divino per regalare la vittoria del Napoli e una gioia ai 30.000 aficionados assiepati nella curva nord dell’olimpico romano. L’altro il pianto cadenzato, un anno e mezzo dopo, marzo 1988, quando Giannini e Oddi violarono il San Paolo aprendo la crisi nel Napoli, primo presagio di uno scudetto di nuovo in bilico.

    Gli anni ’90 sono stati quelli della transizione e dell’equilibrio sostanziale dei risultati. Un po’ meno emotivi, un po’ meno romanzati, più normali, più convenzionali. Un po’ come la musica di quegli anni, tesa tra il grande delle generazioni precedenti e la ricerca di storie di quella successiva. L’equilibrio, in una partita di epica cavalleresca, sembra quasi un controsenso. Invece, racconta un tratto anch’esso romanzesco, il tratto sottile della divisione della posta, così come facevano i corsari e non i pirati nelle incursioni in nome di sua maestà. Alla fine del decennio dei ’90 contiamo cinque vittorie del Napoli, cinque della Roma e sette pareggi, già sette affinché tutto torni e il racconto di questa partita storica si chiuda.

    La settima arte che raccontiamo è la danza. I movimenti sinuosi di Higuain, Cavani, Callejon che con le loro danze hanno segnato, in tutti i sensi, l’inviolabilità del San Paolo degli ultimi quattro anni e delle ultime cinque partite. Vittorie ricche di fantasia e partite sempre giocate sulla tradizione letteraria di entrambi le squadre. La tradizione che è storia dell’arte, e del derby del sud.

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