Calciomercato.com

  • Se vincesse la Fiorentina? Coraggio Diego
Se vincesse la Fiorentina? Coraggio Diego

Se vincesse la Fiorentina? Coraggio Diego

Per l’ossatura vincente, la Juventus ha speso pochissimo: 900mila euro per Barzagli, Pirlo è arrivato gratis, Marchisio è cresciuto a Vinovo, 1 milione per Pogba, 10 milioni e 500mila euro Vidal (diventati 12 con i bonus), Tevez 9 milioni (più 6 di bonus, chissà se sono stati pagati) e Llorente a parametro zero: questa la spina dorsale della squadra, sette giocatori costati grossomodo 25 milioni. Paradossalmente sono stati spesi molti più soldi per giocatori assai meno decisivi: i terzini Litchsteiner, Asamoah e Isla, e Peluso e Motta (alcuni dunque già ripartiti): insieme, 60 milioni! Altri 15 per Bonucci, che non sembra titolare nel prossimo futuro, per la sua poca abitudine e prestanza nella linea di difesa a quattro, che finalmente Allegri sembra voler osare. Ogbonna, poi, per ora è stato un investimento da 15 milioni più Immobile: l’affare l’ha fatto il Torino, che da quell’operazione in 12 mesi ha incassato oltre 30 milioni (sommando i soldi affluiti per il capocannoniere).

Il portiere invece (e che portiere) costò uno sproposito, ai tempi della ricchissima serie A: ci vollero 105 miliardi delle vecchie lire per prendere Buffon dal Parma, assieme a Thuram (e in Emilia andò Bachini, a una valutazione così fasulla da far oggi effetto: 30 miliardi). Altri tempi, inutile anche misurare la distanza. Meglio tornare al tema: costruire una squadra forte può non essere così costoso se ci si muove per tempo sui giocatori in scadenza, se si corteggiano i campioni in sovrannumero nelle squadre inutilmente gonfie di fenomeni. Gli 80 milioni spesi per "rifinire" la Juventus con giocatori che sono di complemento al gruppo dei titolari importanti dimostrano solo che si può sempre fare meglio, anche quando i risultati sono eccezionali. Se quel malloppo fosse stato usato per uno solo, al massimo due acquisti di quel livello da allineare almeno i titolari della Juventus a quelli delle grandi d’Europa...

Ma la Juventus in questo pezzo serve d’esempio, per le scelte (giuste) suddette. È chiaro che fa la differenza la possibilità di spendere per gli ingaggi: anche i campioni presi a zero spese poi vanno a gravare sui bilanci con stipendi comunque milionari. Però c’è stato molto lavoro buono.

Dietro, seguendo classifiche recenti e pronostici, il Napoli e la Roma hanno finanziato le loro bella squadra da Champions con le cessioni di giocatori che sembravano incarnare i destini - e il futuro - dell’intero gruppo e che invece hanno avuto sostituti all’altezza (e con la mancia sono arrivati anche altri buonissimi giocatori). Queste le tre migliori realtà della serie A, le tre logiche favorite anche del prossimo torneo.

Eppure la situazione più interessante è quella della quarta in classifica (e forse nei pronostici): la Fiorentina. La squadra è forte ma ha bisogno di incastri particolari: la salute di Pepito Rossi e Mario Gomez, la disattenzione dei vari magnati del calcio su Cuadrado, che può restare per mancanza di offerte credibili, il ritorno all’antica e breve fama di Marko Marin, la tenuta fisica del gruppo di giocatori di carisma e classe (Rodriguez, Pizarro, Borja Valero), l’alterno rendimento dei compramari. Può succedere tutto, può succedere quest’anno. Ma su tutto, serve alla squadra, ai tecnici, all’ambiente di sentire la voglia di vincere dei Della Valle. Per essere concisi e diretti: i Della Valle possono vincere, ne hanno i mezzi economici. È una famiglia dal punto di vista finanziario molto solida: partendo dai tre marchi aziendali (Tod’s, Hogan, Fay) Diego Della Valle si è costruito una posizione anche nella finanza italiana. Ha vissuto gli ultimi vent’anni a irrobustirsi in quasi tutti gli azionariati che lo coinvolgevano, ha beneficiato di grandi intuizioni e di una capitalizzazione in borsa del suo titolo principale che non ha uguali fra i colleghi di ventura. Ha trafficato in aziende internazionali (i magazzini del lusso Saks) uscendone con profitti importanti. Forbes  lo "stima" con un patrimonio personale di 1,5 miliardi di dollari (lo indica assieme al fratello Andrea, che è dedito alla Fiorentina). Per capirci, molto di più di Tom Werner, il produttore televisivo americano proprietario del Liverpool, e poco meno del compianto Malcom Glazer che rilevò il Manchester United dalla Public company che lo gestiva in una mitica Opa ostile, ormai 10 anni fa.

I paragoni non sono presi a caso: Liverpool e United sono le due squadre inglesi più vincenti, 62 titoli il Manchester, 59 i Reds. I magnati americani c’entrano poco con queste vittorie, arrivate (in gran numero) anche prima di loro, anche con proprietà assolutamente più modeste, perfino rarefatte (come nel caso della società di Manchester).

È un fatto di cultura sportiva: quello è il vero marchio di queste due cittadine, l’una (Liverpool) con gli stessi abitanti di Firenze, l’altra appena più grande, ma assai più piccola dell’ampia città metropolitana fiorentina come ormai viene intesa. Ancora: due città affatto virtuose, seppur potenze del primo novecento, con i cotonifici di Manchester e il porto "verso" il nuovo mondo di Liverpool: allora, le due città contavano il doppio degli abitanti. Poi la crisi industriale, finanziaria, sociale di quella zona d’Inghilterra (per capire basta vedere un film, uno dei tanti, di Ken Loach). Dunque, non sono città ricche, capaci di attrarre investimenti per motivi esotici o per fertilità connaturata. È il calcio la vera industria di queste due città: due marchi che producono più di un miliardo di euro l’anno. Come le squadre delle grandi capitali europee, in mano agli sceicchi o chicchessia. Eppure non sono due città capitali (altro alibi da spazzar via: in sostanza, l’unica capitale fra gli Stati più ricchi che vince spesso nel calcio europeo è MadridParigi è al secondo titolo della storia, Roma ne somma 5 in un secolo, Berlino solo nei campionati della Germania Est, assai aggiustati alla bisogna del regime). Bisogna essere capitali del calcio, non capitali politiche, e nemmeno per forza economiche (anche se questo – per esempio in Italia, con l’asse Milano-Torino, Moratti, Berlusconi, Agnelli, è stato decisivo). Ma Barcellona non è città ricca, Monaco di Baviera sì, ma prima ancora è la capitale indiscussa del calcio tedesco, dove altre città potrebbero vantare grandi ricchezze fondate sulle storiche industrie così legate al territorio, come usa in Germania.

Manchester e Liverpool, allora. Due città che hanno un’immensa storia e cultura calcistica, che produce beneficio, attrae capitale straniero, come Londra, più di Londra in proporzione. E quel patrimonio immateriale che è appunto la cultura calcistica, il saper vivere di calcio e il saperlo fare, scava la differenza. A debita distanza (ma non troppa) Firenze dovrebbe provare a stare nel calcio con la stessa ambizione, o quantomeno in quel solco di idee. Un giorno di tanti anni fa l’avvocato Gianni Agnelli disse che la storia del calcio italiano, smerigliata dagli anni dei pionieri, era fatta di quattro grandi squadre: la Juventus, l’Inter, il Milan e la Fiorentina. Le rammentò in quest’ordine. Poi vennero le romane, per molti decenni lontane dalla continuità di vertice, poi ci fu il Napoli con Maradona, e anche altre belle squadre, competitive per pochi soli anni. La Fiorentina c’era. Lo scudetto arrivò due volte soltanto, ma lassù il viola era un colore presente, considerato, con oltre 30 piazzamenti nelle prime 5 in classifica. Più ancora delle parole dell’avvocato e della suggestiva paternità del gioco, che i fiorentini vogliono arrogarsi per via del calcio storico (o in costume), contano quei campioni che sono passati da Firenze, italiani e stranieri: elencarli è solo un modo cinico di commuovere i tifosi viola.

Poi c’è la città, quella sì che è un marchio: è fra le 10 città più famose del mondo, l’8° per afflusso turistico (ai primi 5 posti ci sono metropoli con oltre 3 milioni di abitanti). Sicuramente una capitale del mondo, con grande passione calcistica: terreno fertile, infatti nel 2002 Diego Della Valle andò a prendersi la squadra dagli abissi e dal fallimento. Dopo 12 anni può e deve provare a dare alla sua avventura calcistica lo stesso senso e la stessa ambizione che ha in tutti gli altri settori dove interviene (tutti: dalla economia alla politica alla finanza). Ha sempre mirato al bersaglio grosso in ogni sua dimostrazione pubblica. Nel calcio, invece, crede nello "scudetto del quarto posto" come il primo piazzamento possibile con determinate risorse, con diritti tv così distribuiti, con quel bacino d’utenza… frasi che i tifosi di ogni squadra conoscono a memoria. Ma concetti anche un po’ ipocriti, perché nient’affatto immutabili. Liverpool e Manchester hanno subito crisi di appeal profondissime. Nel 1985 il club che poi si affidò a Ferguson era sovrastato da almeno 6-7 squadre inglesi, come brand non valeva niente e le squadre del Regno Unito si sarebbero dovute piegare alla decisione della Thatcher: l’esclusione per un lustro dalle coppe, con gli intuibili danni d’immagine. Manchester però covava quella cultura, quella cenere che tornò fuoco: 30 anni dopo è il maggior marchio calcistico-economico al mondo, assieme al Real Madrid.

L’obiettivo di un calcio dai bilanci sani è meritevole, è salvifico, per carità.  Ma l’equilibrio è un concetto che può spostarsi (verso l’alto, verso il basso). La Roma, per esempio, lo ha spostato verso l’alto, senza deprimere i conti, anzi, rimediando pian piano alla sbronza dei Sensi. La Fiorentina può spostarlo in su scommettendo sulla squadra, sull’effetto trainante di una vittoria che manca da tanto tempo, sulla sconosciuta (ancora) possibilità di affermare un marchio che a livello di città già esiste, e a livello di coinvolgimento sentimentale è innegabile. Per essere brutali e forse irriconoscenti: mai la Fiorenitna è stata così tanto tempo senza vincere un trofeo, e che lo sia con la proprietà più solida che abbia mai avuto deve comunque far riflettere. Anche intesa come azienda, una società di calcio ha bisogno di azzardo, di visione, di coraggio.

La lunga (ed estraniante) premessa di questo articolo era per dimostrare come si possa vincere anche con spese non così impressionanti. Magari basta tenere un giocatore forte che vorrebbe giocare altrove, e fargli capire che Firenze non è un taxi, ma una stazione di arrivo (la migliore Fiorentina degli ultimi 5 anni fu quella con Cuadrado e Ljaic esterni, e Jovetic falso nove, età media di 23 anni e soprattutto 32 punti in 14 partite nella primavera del 2013. Se parte Cuadrado, in 16 mesi quella vivace e innovativa idea di attaccare è stata completamente smantellata). A differenza di Juventus, Napoli e Roma, per tornare al punto di partenza, la Fiorentina è meno attraente per i giocatori già affermati, anche per una politica sugli ingaggi molto stretta – rinnegata poi da una rosa di giocatori demenziale per ampiezza – e per questo le cessioni sono più dolorose. Ma questi sono già conti, sempre e solo conti. I ragionieri sono come certi dottori: certificano le cause, non prevedono speranze né sogni. E qui si tratta di provare a innescare una miccia dagli scoppiettanti aspetti virtuosi. Nel calcio vincono anche città di medie dimensioni, con nessuna industria alle spalle, anzi, perfino in zone depresse, ma che nel corso degli anni sono riuscite ad affermare il marchi calcistico. Credere che Firenze possegga in sé questo "brevetto" è un errore di superbia di chi ama troppo quella squadra. Ma credere che la Fiorentina non abbia qualcosa di particolare da "spendere" in questo spaccato (e magari allinearla per comodo e furbescamente a città a digiuno di storia calcistica) è invece un errore di ignoranza.

L’altro giorno, passeggiando da appassionato di simboli e colori da stadio in un negozio di Roma, ho visto in vendita le maglie di 20 società di calcio: solo cinque erano italiane (quella della Fiorentina non c’era, non rientrando fra gli sponsor più noti: anche queste sono pecche di un merchandising così tanto reclamizzato ma così poco strutturato). Le più vendute? Quelle del Manchester United.

 

Marco Bucciantini (giornalista de L'Unità)


Altre Notizie