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  • Serie A: 'Il campionato più bello del mondo' è una scusa per non ricostruire

    Serie A: 'Il campionato più bello del mondo' è una scusa per non ricostruire

    • Pippo Russo
    Come volevasi dimostrare. È bastata meno di una settimana per scoprire che l'eliminazione della nazionale azzurra dalla fase finale dei mondiali, giunta per la prima volta dopo sessant'anni, non ha scalfito di un minimo la pigrizia mentale che ha portato il nostro calcio al punto più basso della propria storia. Il senso della gravità è durato giusto quei due-tre giorni successivi alla gara del Meazza contro la Svezia, durante i quali il tema della nostra decadenza calcistica era un'emergenza mediatica, e cavalcarlo garantiva numeri e audience.

    Ma poi basta, perchè continuare a raccontare di un movimento caduto vergognosamente in basso non era un affare per nessuno. Soprattutto per chi questo racconto lo deve diffondere e vendere, e non ha alcun interesse a far passare l'immagine d'un prodotto di scadente qualità. E dunque, ecco che già da giovedì-venerdì della scorsa settimana è ripartita la litania, scandita da un slogan: consoliamoci col campionato.

    E già. Come se nell'ultimo decennio non avessimo fatto proprio questo: confinarci nel nostro torneo nazionale, corazzati nell'illusione che sia ancora il più bello del mondo come lo era fino alla fine dei Novanta. Una gigantesca bolla narrativa che ci ha imprigionato e impigrito, mantenendoci dentro un cabotaggio sempre più infimo mentre fuori dai nostri confini i movimenti nazionali degli altri paesi crescevano in termini di competitività tecnica e economica. E abbiamo continuato a interpretare i rovesci internazionali dei nostri club come episodi, o al massimo come fenomeni transitori dai quali ci si sarebbe presto ripresi, e che comunque in nessun modo potessero scalfire il nostro senso di grandezza. Quando invece avremmo dovuto vedere la nostra Serie A per ciò che effettivamente è: un refugium peccatorum, un parametro in costante ribasso grazie al quale abbiamo perpetuato la fuga dalla realtà, anziché affrontarla in tutte le sue durezze e provare a risalire la china. Di volta in volta à bastato abbassare di una tacca il grado delle pretese, e tutto tornava entro i limiti dell'accettabilità.

    Ecco, quell'ansioso appello al "ritorno al campionato" è stato il segno dell'irredimibilità del calcio italiano. Si sarebbe dovuto riavviare il rito domestico con atteggiamento severo e consapevole, quello che si deve a un torneo ormai strutturalmente incapace di esprimere un valore tecnico medio credibile e una qualità dello spettacolo competitiva sul piano internazionale. E questo atteggiamento di severità e consapevolezza doveva essere la vera base su cui ricostruire. Invece no.

    Già nella sera di sabato, dopo due gare tirate come il derby romano e il confronto del San Paolo fra Napoli e Milan, ci si è lasciati andare alla narrazione sul "campionato mai così equilibrato". Senza stare a chiedersi se per caso questo equilibrio sia sempre più al ribasso, e chiudendo gli occhi sul panorama deprimente che si apre dal settimo posto in giù, dai 19 punti del Milan (16 dalla vetta, 11 dalla zona Champions e 7 dalla zona Europa League, ma con una partita in più rispetto alle ultime tre squadre che lo precedono) fino agli 0 punti (in 13 gare) del Benevento.

    Due terzi del nostro torneo sono una A2 con almeno mezza dozzina di squadre che faticherebbero nelle seconde divisioni d'Inghilterra, di Spagna e di Germania. Questo è il campionato che dovrebbe farci da consolazione, questo è lo spazio nel quale dovremmo ricostruire la nostra potenza calcistica. Sarà durissima ritornare in alto. Anche perché quaggiù possiamo ancora raccontarci d'essere dei geni del calcio.
     

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