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  • Dopo l'attacco di Commisso: la gente ha il diritto di sapere cosa si dicono gli arbitri di campo e quelli del Var

    Dopo l'attacco di Commisso: la gente ha il diritto di sapere cosa si dicono gli arbitri di campo e quelli del Var

    • Alberto Polverosi
      Alberto Polverosi
    Esiste una grottesca contraddizione alla base di quanto sta accadendo nel mondo arbitrale dall’inaugurazione del Var a oggi. Domanda: per quale motivo il calcio ha deciso di ricorrere al mezzo tecnologico per risolvere alcuni episodi dubbi durante una partita di calcio? Semplice, per rendere più giusto il calcio stesso, evitare polemiche e rendere più chiaro a tutti quanto avviene in campo. Appunto, rendere più chiaro. Ma allora, se l’intento è questo, perché non chiarire anche quanto accade fra l’arbitro in campo e l’arbitro davanti al monitor? Ultimo esempio, il secondo rigore di Juve-Fiorentina. Lasciamo perdere le polemiche per un attimo e andiamo sul fatto. Corpo a corpo Ceccherini-Bentancur, per l’arbitro di campo Pasqua è rigore, ma per l’arbitro del Var, Calvarese, esiste un dubbio o forse due: dove è avvenuto il contatto fra i due giocatori e se quel contatto è tale da determinare il calcio di rigore. Il punto è che noi presumiamo che sia così, ma non lo sappiamo con certezza, quella certezza che soltanto gli arbitri possono dare non solo ai giocatori e ai dirigenti, ma a tutti gli spettatori. Certezza che probabilmente non eviterebbe le polemiche, ma renderebbe, ecco il punto, tutto più chiaro.

    Sembra impossibile che Nicchi, pur preso da questioni elettorali che lo riguardano in prima persona, non si renda conto che il Var diventa un animale furioso se non riesci ad addomesticarlo. E per farlo devi rendere pubblico quello che si dicono i due arbitri, devi spiegare. Non è solo un diritto della classe arbitrale, è un dovere per tutto il mondo del calcio.

    Non arriveremo mai alla decisione giusta al 100 per cento, ma gli arbitri devono partecipare alla trasparenza. La casa di cristallo non deve essere un’utopia, ma un obiettivo. In tutta franchezza, a noi risulterebbe difficile vivere e lavorare in un mondo che ti guarda sempre con sospetto. Dirà il lettore: è da sempre così. Ma se i social hanno un merito, è quello di far sapere, far conoscere. Gli arbitri no. Restano chiusi nella loro casupola con un guardiano che risponde a un presidente furioso scendendo sullo stesso piano, anziché strutturare una replica adeguata. Chiudersi non è mai un bel segnale.
     

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