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  • I tre motivi del flop Var: siamo in Italia, il verdetto del campo non conta nulla

    I tre motivi del flop Var: siamo in Italia, il verdetto del campo non conta nulla

    • Fernando Pernambuco
      Fernando Pernambuco
    Con buona pace per chi credeva che il VAR avrebbe risolto o fugato quasi del tutto le polemiche legate agli arbitraggi del Campionato, è capitato, come prevedibile il contrario. Sostanzialmente per tre ragioni.

    La prima perché siamo in Italia ed è difficile accettare i verdetti del campo: chi vince lo fa perché è sempre “aiutato”, “è un potere forte”, “corrompe gli arbitri”; se non vuole incidere sulla vittoria finale dello scudetto, allora agisce per “alterare la lotta per la salvezza”, “o per l’ ingresso in Champions”, per quello dell’ “Uefa”  ecc. E così nasce una casistica infinita, alimentata da un complottismo endemico. Non sono solo i tifosi, sospinti quasi sempre più dalla passione  e non dalla ragione, a ricorrere al sospetto perenne, ma anche gli addetti ai lavori. Avete mai sentito un presidente o un dirigente sportivo riconoscere che la propria squadra è stata avvantaggiata da uno o più errori arbitrali, li avete mai sentiti dire che l’arbitro non era adeguato perché ha danneggiato gli avversari, che forse la propria squadra non meritava di vincere? Mai. O meglio, la sconfitta deve essere netta, con punteggi quasi tennistici, oppure i giochi di classifica devono essere chiusi o ancora non c’è stato (cosa rarissima ) alcun episodio da vivisezionare.
     
    La seconda ragione del fallimento del VAR come talismano magico in grado di fugare ogni dubbio, risiede nella relatività dello strumento tecnologico, che aiuta, ma non determina. Il giudice, proprio come accade nell’amministrazione della giustizia civile e penale, è umano. A lui spetta l’ ultima parola. Potrà avvalersi di tutte le nuove tecnologie d’indagini (intercettazioni, tabulati  celle telefoniche ecc.) sommate alle proprie ricerche, ma alla fine chi giudica è lui. Lo stesso avviene per una partita, solo che le decisioni devono essere più rapide, sono prese da un uomo e gli strumenti tecnologici rappresentano strumenti utili, ma non definitivi. La morale è, quindi, sempre la stessa: si può sbagliare. Il fatto è che gli errori vengono, a posteriori fuori dal campo immensamente ingigantiti, e utilizzati a propria discolpa. Una delle ragioni, non troppo peregrina, risiede nel fatto che dirigenti, funzionari, allenatori, accompagnatori e anche presidenti devono campare. Tutti devono rabbonire i tifosi, trovare scuse se le cose non vanno, additare i colpevoli che quasi sempre sono esterni. Gli allenatori sono quelli che, nell’immediato pagano di più, ma anche loro, insieme ai dirigenti, devono tenere a bada, in primis, i presidenti o gli azionisti di riferimento. Insomma: tengono famiglia e se qualcosa non va la colpa non è dei giocatori, della campagna acquisti, della conduzione amministrativa, di loro stessi… La colpa è degli altri. Anzi, di un altro: l’arbitro.
     
    Terzo argomento. Si può sbagliare finchè a giudicare è un uomo e non un algoritmo, una mente umana e non un’intelligenza artificiale. Quando avremo l’arbitro artificiale, quello che non sbaglia un colpo saremo del tutto sicuri? No, perché ci sarà sempre qualcuno che lo imposterà, lo regolerà, lo verificherà. E quindi torneremo alla relatività della conoscenza e della competenza umane. Avremo l’assoluto quando l’intelligenza umana scomparirà. Allora il calcio sarà giocato e guardato da macchine. E con l’arbitro non se la prenderà più nessuno.
     

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