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  • Kennedy e la lotta contro il Parkinson: 'Non l'avrai mai vinta, -amico- mio'
Kennedy e la lotta contro il Parkinson: 'Non l'avrai mai vinta, -amico- mio'

Kennedy e la lotta contro il Parkinson: 'Non l'avrai mai vinta, -amico- mio'

  • Remo Gandolfi
“Che c’era qualcosa che non andava nel mio corpo lo sapevo da tempo.
Ero appena arrivato all’Arsenal quando alla fine di un allenamento mi accorsi improvvisamente che facevo fatica ad abbottonarmi la camicia.
Un piccolo tremolio alla mano destra, che semplicemente non voleva obbedire al cervello e infilare quei dannati bottoni al proprio posto.
Poco tempo dopo la stessa cosa mentre cercavo di allacciare le stringhe dei miei scarpini.
Sarà un po’ di stanchezza pensavo o magari una botta al braccio che mi aveva indolenzito un muscolo.
Quando hai vent’anni mica ci pensi a certe cose !
A quell’età ti senti forte, invincibile come i personaggi dei film americani.
… non immagini certo che quelli sono in realtà i primi segnali del morbo di PARKINSON.
E poi avevo altro a cui pensare.
Ero diventato un calciatore professionista !
E mica in una squadra qualsiasi … nell’ARSENAL FC.
Quando guardo indietro a quei giorni non posso non sentire un grande orgoglio.
Avevo giocato nel Port Vale da ragazzino. Mi aveva voluto nel club un “certo” Sir Stanley Matthews.
Lo stesso che dopo poco più di un anno mi diede il benservito.
“Sei troppo grosso, lento e sgraziato. Figliolo con il calcio tu non ci potrai mai campare” queste più o meno le parole con cui mi liquido’ Sir Stanley Matthews.
Non è stato affatto facile assimilare questa delusione.
Ma in fondo chi sono io per confutare le parole di uno dei più grandi calciatori della storia della mia nazione ?
Così me ne sono tornato dalle mie parti, nel nord est dell’Inghilterra.
Ad attendermi c’era un posto da operaio in una ditta di dolciumi e una maglia da attaccante in una piccola ma agguerrita squadra juniores, il New Hartley Juniors.
Li ho ricominciato a divertirmi e a fare tanti gol.
In attacco a fare coppia con me c’era Ian Watts, che qualche anno prima aveva giocato nella Nazionale Inglese Under-14.
Un giorno è venuto a vederci uno scout dell’Arsenal.
Quando si muovevano da Londra per venire fin lassù voleva dire che bolliva qualcosa di grosso in pentola !
Dalle nostre parti i ragazzi con più talento finivano immancabilmente nelle fila di Newcastle, Sunderland o Middlesbrough.
Il problema era che lo scout non si era fatto tutta quella strada per me !
Era venuto per vedere Ian.
Finita la partita vedo che lo scout si ferma a parlare con il nostro Presidente e un altro dirigente.
Pensai che per il mio compagno fosse fatta.
Invece due giorni dopo vengo convocato in sede e mi dicono che c’è pronto un contratto con l’Arsenal.
Ok, era solo un contratto giovanile ma mi sembrò di impazzire di gioia.
Neppure 6 mesi dopo firmai il mio primo contratto professionistico.
Sono stati anni fantastici con i Gunners.
A 18 anni ho esordito in prima squadra e pochi mesi dopo la soddisfazione incredibile di segnare un gol nella finale della Coppa delle Fiere. Giocavamo a Bruxelles contro l’Anderlecht e stavamo perdendo 3 a 0.
E proprio io, in campo da 5 minuti al posto di Charlie George, ho segnato quel gol che diventò decisivo visto che nel ritorno ad Highbury li sotterrammo noi per 3 reti a 0.
Ogni tanto però il “mio amico” tornava a farmi visita e mi mandava altri segnali.
Ma io semplicemente non volevo vederli.
Una sudorazione eccessiva, il braccio e la gamba destra che ogni tanto mi davano un fastidioso formicolio e poi la stanchezza … a volte finivo gli allenamenti e le partite completamente esausto.
Bertie Mee, il manager che solo tre anni prima ci guidò al “double” (vittoria in campionato e in coppa di Inghilterra) non era più particolarmente contento del sottoscritto.
E così nell’estate del 1974, anche se avevo solo 23 anni, dovetti lasciare i Gunners.
Incassarono ben 200.000 sterline che erano un bel po’ di soldini a quei tempi !
E comunque non fu certo un passo indietro nella mia carriera … anzi.
A volermi era il Liverpool di Bill Shankly !
Ero felice di arrivare in una squadra di quello spessore e con un allenatore fantastico.
I Reds avevano appena vinto la Coppa d’Inghilterra e già da qualche anno erano ai vertici del calcio inglese ed europeo.
Quello che però accadde non appena firmai per i Reds di Anfield non me lo aspettavo proprio !
Bill Shankly, spiazzando tutto il popolo della metà rossa di Liverpool, rassegnò le dimissioni.
E così mi trovai in una nuova squadra ma senza il manager che mi aveva fortemente voluto.
Per più di un anno non riuscivo proprio a trovare spazio in prima squadra.
Il Liverpool era una squadra forte e consolidata.
In attacco giocava quel fenomeno di Kevin Keegan e al suo fianco c’era il gallese John Toschack con il quale aveva costruito un’intesa quasi telepatica.
Qualche presenza ogni tanto, qualche gol ma mai la continuità in prima squadra.
Poi finalmente arriva il giorno in cui cambia tutto, in maniera drastica e definitiva.
E’ il 1 novembre 1975. Giochiamo in trasferta a Middlesbrough, dalle parti di casa mia.
Nella partita precedente si è fatto male Peter Cormack, il nostro centrocampista di fascia sinistra.
Bob Paisley decide di dare al sottoscritto la sua maglia, quella con il numero 5.
“Lo so che hai sempre giocato da attaccante figliolo, ma secondo me hai tutto quello che serve per diventare un ottimo centrocampista”.
… avrei giocato anche in porta pur di scendere in campo con i titolari !
Vinciamo quella partita (con un singolo gol di Terry McDermott) ma da quel giorno infiliamo una serie di 17 partite dove perdiamo solo una partita.
E torniamo prepotentemente in gioco per il titolo.
Ma quello che più conta è che la maglia numero 5 adesso è mia e nessuno me la toglierà per più per diverse stagioni a venire.
Vinciamo quel campionato all’ultima giornata.
Ad un quarto d’ora dalla fine stiamo perdendo di misura contro il Wolverhampton ma 3 gol nel finale ci consegnano il primo trofeo dell’era Paisley.
Quindici giorni dopo vinciamo anche la Coppa Uefa, andando a pareggiare fuori casa contro il belgi del Bruges dopo che all’Anfield li avevamo sconfitti di misura.
Il grande ciclo del Liverpool era iniziato e fino al 1981 ne sono stato una parte integrante.
In quell’anno vincemmo la nostra terza Coppa dei Campioni.
Da quel giorno in poi però tutto quello che poteva andare storto ci andò.
Il Liverpool fece fuori senza tanti complimenti il mio amico Jimmy Case (quante ne abbiamo combinate insieme !) e l’altro “mio amico” iniziò a frequentarmi con maggiore assiduità.
C’erano giorni buoni, dove mi lasciava tranquillo e altri dove invece mi torturava senza pietà.
A volte dopo mezzora di allenamento ero stanco come può esserlo qualcuno che ha corso una maratona.
Non avevo più il mio posto fisso in squadra.
La squadra stava cambiando pelle, stavano entrando nuovi giocatori e i risultati erano più o meno come la mia forma fisica: altalenanti.
Ci pensò il mio vecchio compagno di squadra John Toschack (quello talmente bravo da costringermi a cambiare ruolo !) che era nel frattempo diventato allenatore-giocatore allo Swansea, facendo il miracolo di portarlo dalla Quarta alla Prima Divisione in sole 4 stagioni.
Non solo.
In quella stagione, quella del 1981-1982, quando arrivai allo Swansea a gennaio pareva che proprio il team gallese avesse assai più possibilità di vincere il titolo rispetto ai miei ex-compagni del Liverpool.
E quando il 16 febbraio li battemmo senza appello al Vetch Field mi ero proprio convinto di avere fatto la scelta giusta.
Poi le cose iniziarono ad andare storte per noi.
E meravigliosamente bene per i Reds.
Perdemmo 7 delle ultime 12 partite e non andammo oltre un comunque onorevole sesto posto.
Il Liverpool invece vinse 13 delle ultime 16 partite (le altre 3 di questa serie si chiusero con dei pareggi) vincendo il titolo con una delle più straordinarie rimonte mai viste nella storia del calcio inglese.
Il “mio amico” intanto veniva a farmi visita sempre più spesso.
Nella stagione successiva Toschack mi diede perfino la fascia di capitano.
Ero lusingato e felice ma non potevo dare quello che ero abituato a dare da sempre quando scendevo in campo.
In alcune partite mi sembrava di andare al rallentatore tanta era la fatica che facevo.
Mi accusarono perfino di indolenza, di scarso impegno e disinteresse nei confronti della squadra.
Non li biasimo.
Nessuno poteva sapere quello che stava succedendo al mio corpo.
Ma non potevo accettare queste accuse.
Mi ribellai, mi sentivo ferito nel mio orgoglio di professionista, di calciatore e di uomo.
Ma semplicemente non riuscivo a dare di più.
Mi venne tolta la fascia di capitano e addirittura ricevetti una multa e per due settimane fui addirittura messo fuori squadra.
Mi misero nella lista di trasferimento a marzo del 1983 ma a quel punto non c’era la fila fuori dalla porta del Presidente a richiedere i miei servigi.
Retrocedemmo in Seconda Divisione.
Ad ottobre ci accordammo per terminare il contratto.
Feci qualche tentativo come allenatore-giocatore in squadre minori.
Me ne andai perfino a Cipro.
Tutto inutile.
Nel novembre del 1984 mi venne diagnosticato il Morbo di Parkinson.
Ora almeno il “mio amico” aveva un nome.
La mia carriera, a 33 anni, era già finita.
Qualche amico “vero”, come Lawrie Mc Menemy, il manager del Sunderland, mi offrì un posto nel suo staff.
Qualche mese sereno ma il “mio amico” stava diventando sempre più prepotente e aggressivo.
Un giorno buono e tre balordi.
Mi sono chiuso tra le mura di casa.
Quando sei in queste condizioni e la gente si ricorda di com’eri “prima” non è piacevole.
Ce l’avevo con il mondo intero e volevo distruggere tutto.
E sono stato bravo in questa impresa !
Sono “riuscito” a farmi lasciare da mia moglie su cui ho scaricato per anni la mia frustrazione e la mia rabbia. Se n’è andata, portandosi via Cara e Dale, i miei due figli.
I soldi sono finiti alla svelta.
Ho scritto un’autobiografia, insieme ad uno dei pochi amici che mi erano rimasti, il Dr. Lees, lo stesso che mi aveva in cura.
Ho dovuto vendere tutti i miei trofei e le mie medaglie ed ora tiro avanti grazie all’aiuto dell’Associazione dei Calciatori Professionisti.
Ero in miseria, malato e senza nessuna prospettiva.
Poi è successo un miracolo, di quelli che ogni tanto accadono … magari proprio quando non ci credi più.
Alcuni ragazzi di Liverpool (mi hanno detto che ero il loro idolo) si sono messi insieme, hanno fondato una associazione, la “Ray of Hope Appeal”.
Non credevo ci fossero ancora persone che si ricordassero di me … e che mi volessero così bene.
Karl Coppack e i suoi amici non solo hanno raccolto fondi e mi hanno aiutato con le spese mediche, i viveri e i beni di prima necessità.
No, hanno fatto molto di più.
Hanno deciso di portarmi con loro all’Anfield Road.
Proprio il giorno di Liverpool-Arsenal.
Non sapevo che giornata sarebbe stata per me … buona ? Di quelle dove “il mio amico” mi lascia in pace e riesco ad assomigliare ancora ad un essere umano “normale” ?
O invece quelle dove anche solo alzarsi da letto diventava come scalare il K2 ?
Quei ragazzi mi hanno incitato, sorretto e sostenuto.
“Figlioli, vi ringrazio di cuore, ma chi volete che si ricordi di me ?” ho detto loro.
Avevo paura. Non lo nego, paura di arrivare là e vedere le stesse facce che vedo le poche volte che mi azzardo ad uscire di casa per comprare il giornale o una bottiglia di latte.
E invece ecco cosa accadde.

 

Il pubblico in piedi gridare il mio nome, a cantare “you’ll never walk alone” tutta per me, la Kop con un immenso numero 5 e dall’altra parte i tifosi dei Gunners con il mio “10”.

Kennedy e la lotta contro il Parkinson: 'Non l'avrai mai vinta, -amico- mio'

Non si sono dimenticati di me.
Anche se oggi siamo nel 2009 e sono passati quasi 30 anni dai quei giorni meravigliosi.
Ora posso finalmente piangere di gioia e mi dispiace “amico mio” … questo proprio non puoi impedirmelo.

Ray Kennedy è stato uno dei più grandi giocatori della storia del calcio inglese degli ultimi 50 anni.
Ha vinto tutto quello che si poteva vincere e lo ha fatto con la sua classe, la sua intelligenza calcistica, la sua capacità di disimpegnarsi praticamente in tutti i ruoli del centrocampo e dell’attacco.
Fin quando il terribile morbo di Parkinson glielo ha consentito è stato uno dei calciatori più costanti e continui nel rendimento che il calcio britannico ricordi.
Bob Paisley, il grande Bob Paisley suo allenatore nei fantastici anni con i Reds, disse di lui nella sua autobiografia: “E’ mia opinione dire che Ray Kennedy è stato uno dei più grandi calciatori nella storia del Liverpool … e con ogni probabilità il più sottovalutato”.


 

Il racconto in prima persona è ovviamente romanzato da chi scrive ma è fondato su decine e decine di interviste, articoli, e profili dedicati a questo grandissimo campione, capace di scrivere la storia di due delle più grandi e amate squadre di calcio inglese, Arsenal e Liverpool.
 
 

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