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  • L'allarme della Crusca: il Covid infetta anche la lingua, italiano sempre più anglicizzato. E nel calcio...

    L'allarme della Crusca: il Covid infetta anche la lingua, italiano sempre più anglicizzato. E nel calcio...

    • Fernando Pernambuco
      Fernando Pernambuco
    Se la lingua è parte integrante dell’identità di un individuo, di un popolo, di una nazione, dovremmo fare un po’ di attenzione. A difenderla? Certo, ma piuttosto, rovesciando l’atteggiamento catenacciaro in offensivo, attenzione ad alimentarla. Prendo spunto da un articolo di Pippo Russo su “Repubblica” di oggi, intitolato “Se il virus colpisce l’Italiano”. Uno dei tanti effetti del Covid-19, dice Russo, è stato quello d’infettare l’italiano, come ha fatto notare il Presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini: “lockdown”, “smartworking”, “droplet”, “recovery fund”. E soprattutto, notiamo, la pronuncia di “virus” in “vairus”.

    L’anglicizzazione non trova ostacoli nemmeno nel rispetto del latino, ma ogni lingua è un organismo vivente in evoluzione. Eppure l’etimologia non mente mai. Anzi rilancia e arricchisce di significato il presente. “Virus”, infatti, in latino  significa veleno, solo che essendo finito, molti anni fa, nell’“Oxford Dictionary”, la sua pronuncia fu anglicizzata in “vairus”. Il resto lo fa il potere della lingua collegato al periodo storico di un Paese. Il greco divenne la lingua del pensiero e della conoscenza, di Aristotele e Tucidide, successivamente fu la volta del latino con Roma, che continuò a dominare in Europa quale lingua colta fino a pochi secoli fa. Il francese rappresentò il codice dell’eleganza e lo strumento della diplomazia. Ma con la supremazia americana l’inglese, oggi, ha esteso il suo dominio.

    Una delle ragioni della prevalenza di una lingua sull’altra consiste, infatti, nel primato economico culturale: dalla finanza al cinema, alla musica, alla tecnologia. Il digitale nasce angloamericano e, per esempio nella musica, non sembra opportuno tradurre la parola “rock and roll” con “oscillare e dondolare”. Viceversa quando secoli fa, il nostro Paese era considerato la patria della musica e del Bel canto, la terminologia adottata ovunque divenne italiana: adagio, allegro, vivace... Certo, quando si può è meglio fare uno sforzo: “clausura” risulta migliore di “lockdown”, “tendenza” preferibile a “trend”. Ma talvolta si perpetrano vendette bizzarre. “Lavoro da remoto” utilizzato in italiano, traduce “remote working” inglese, ma effonde un aura desueta. Una concezione del lavoro futuribile, che sa di passato: qualcosa che proviene da un tempo lontano.

    Fra le tante possibilità di usare un termine italiano invece di uno inglese, esistono casi in cui la traduzione è difficile, se non impossibile. “Fair play” ad esempio, non significa solo “correttezza”, ma anche “saper perdere” e saper imparare da una sconfitta. Un modo di pensare allo sport come occasione di partecipazione e assunzione di responsabilità, nato nell’Inghilterra vittoriana, in cui le competizioni valevano come attività fine a se stessa, a prescindere dal risultato e i regolamenti erano legge non scritta. Poi, proprio nel football, in Inghilterra con l’estendersi della sua popolarità e con l’avvento del professionismo, fu necessaria l’introduzione di regole stringenti. Oggi il “fair play” da spontaneo atteggiamento sportivo è divenuto addirittura uno stringente strumento finanziario. Certo, questo non basta a giustificare le inutili storpiature fonetiche come Juventus Stedium” invece di “Stadium”. Ma poi tutto è stato risolto chiamandolo semplicemente “Allianz”.

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