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  • La grande favola del calcio: il bel gioco non esiste, decidono sempre i singoli. Dybala è la prova

    La grande favola del calcio: il bel gioco non esiste, decidono sempre i singoli. Dybala è la prova

    • Gian Paolo Ormezzano
      Gian Paolo Ormezzano
    Questo è un articolo provocatorio, dedicato come altri al giocar bene e al giocar male nel calcio e ai bla-bla-bla vari ed eventuali. Abbiamo già provato a definire (o no) il giocar bene appoggiandoci ad esempi assortiti. Ma gli ultimi fatti hanno dato forza alla tesi, da noi la più amata, secondo la quale il giocar bene non esiste, idem il giocar male. Procediamo per paradossi spiccioli che magari non sono tali, visto che, essendo secondo noi paradossale eccome il calcio tutto, il paradosso spicciolo rischia di essere normalità, o al massimo piccolo cabotaggio polemico.

    Subito un esempio: Manchester City–Atalanta, il Manchester domina praticando un gioco che è l’esatto opposto di quello che il suo allenatore attuale, Guardiola, faceva praticare al Barcellona del tiki-taka, anche 48 passaggini prima di arrivare al tiro-gol. Il Manchester City stravince giocando con palle lunghe, aperture ariose, insomma il calcio della Pro Vercelli anni venti. L’Atalanta, che mette in difficoltà quasi tutte le squadre italiane col suo gioco aggressivo, è sommersa. Per gli inglesi partita bellissima, per gli italiani, specie se bergamaschi, incolore, decisa da episodi (definizione che è una splendida trovata italiota, un bla-bla-bla raffinato).

    Un altro esempio: Sarri. Persino i megacultori del gran calcio, in Italia quello bianconero, stentano a capire se la Juventus di Sarri gioca più o meno bene di quella di Allegri. Qualcuno conta i passaggi dei sarriani, sino a 24 consecutivi per arrivare al gol (contro l’Inter). Ma questo è un pregio o un difetto? Non chiedetelo a Guardiola: nel suo Barcellona era un pregio, nel suo Manchester City sarebbe un difetto, una perdita di tempo. E avanti, dal complesso al singolo: la Juventus di Sarri ha battuto, in rimonta, il Lokomotiv Mosca con due magnifici gol di quel Dybala che poche settimane fa era ancora in vendita, fuori dagli schemi di gioco previsti e cercati. E si diceva fra l’altro che lui non voleva andare in Inghilterra (magari proprio a Manchester) in quanto argentino memore della guerra del Regno Unito contro il suo paese, che voleva che le isole Falkland diventassero Malvinas: che forza!

    Avanti: il Torino di Mazzarri gioca bene o male? Batte l’Atalanta e il Milan quasi con facilità, domina per un tempo intero il Napoli, perde in casa col Lecce, perde fuori casa con Parma, Sampdoria e Udinese tutte derelitte o quasi della classifica. Il gioco di Mazzarri è bello se Belotti segna e il Torino fa punti, ma Belotti per segnare deve ricorrere alla rovesciata, visto che non riceve altri tipi di passaggi da compagni teoricamente votati al dialogo, visto che non sanno tirare in porta.

    Avanti: presunti maestri di gioco come Giampaolo e Di Francesco sono stati triturati dalle prime partite. La Sampdoria ha riesumato Ranieri nobile soccorritore vegliardo che dice che serissimamente bisogna lavorare molto per ottenere qualcosa (mai sentito, no?).

    Ci sono scuole di pensiero assortite su Conte: ha trasformato l’Inter innovando a fondo o semplicemente sta ricalcando un suo cliché, peraltro di successo, che presume che i calciatori siano dei poveracci dei minus habentes e debbano essere spronati con urla, sennò non capiscono che sono pagati per mettercela tutta?

    Ogni tanto ci vengono in mente pensieri iconoclastici, blasfemi, tipo: le tattiche non esistono, idem gli schemi, si gioca come l’avversario ti permette di giocare; il marcamento a uomo è ancora quello valido, zona o non zona; forse il libero all’antica servirebbe eccome; macché gioco corale, in fondo basta un portiere che pari tutto e un attaccante che segni molto e la squadra è squadrone; il grande allenatore non esiste, o meglio grande è chi riesce a farsi acquistare grandi giocatori, e pazienza se non scoperti da lui.

    Per non dire del mito del centrocampo, dove nasce – dicunt – il gioco. Un grande calciatore danese, Karl Hansen, anni cinquanta, dopo tanto agire in Italia da centrocampista, andò in Scozia, ad Aberdeen, città di grande vento, attirato dalla proposta di un ingaggio ancora, disse che era centrocampista e si sentì dire: qui il centrocampo non esiste, mai visto fare un gol da centrocampo, e poi se c’è vento contro tutti indietro a difendere, se c’è vento a favore tutti avanti ad attaccare.

    Pissi-pissi-bao-bao, adesso: se il segreto della popolarità del calcio, sport bruttino e splendido gioco, fosse proprio la sua estrema semplicità? E così siamo al paradosso estremo, questo sì grosso, ma forse mica stupido: essere il calcio uno sport individuale, dove ad un certo livello arrivano in tanti ma poi decide la prodezza del singolo, la sua classe. Così come il ciclismo è sport di squadra, dove se non hai i gregari che ti assistono nel tappone delle tante  salite con calore umano, acqua fresca e anche traini e spinte clandestine, non esplodi e vinci.

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