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  • Le lezioni di Giorgio Bocca, il 'partigiano bianconero'

    Le lezioni di Giorgio Bocca, il 'partigiano bianconero'

    • Marco Bernardini
    Lui, ateo convinto e irriducibile, non poteva che andarsene da questo mondo a Natale. Il giorno dell’Avvento di un “uomo” chiamato Gesù. Le contraddizioni sono il sale della vita. Aveva raggiunto la bella età di novantun'anni, Giorgio Bocca. Un’esistenza spesa per tentare di cercare sempre la verità tra le pieghe di una società che puntualmente prendeva a schiaffi non perché la odiasse ma per stimolarla a progredire positivamente anziché solamente a svilupparsi. La sua arma era la penna, dopo che aveva deposto il fucile usato nel corso della sua avventura di partigiano sui monti che fanno da corona alla sua terra del Cunese. Con quella “sparava” mai a caso. Non per stupire, ma per dare un senso alla sua dignità di uomo libero e a quella dei suoi lettori spesso cani sciolti come lui. Per questo ebbe a consumare una vita contro. Contro le convenzioni, le banalità, le ipocrisie, gli atteggiamenti farisaici, il conformismo, la massificazione del cervello. Lezioni di giornalismo, di letteratura e soprattutto di vita.

    Ricordo che, nel settembre del 1970, varcai il portone di un sontuoso palazzo barocco di Torino e mi avviai lungo una scalinata in marmo degna di un sito regale. Lì, in Corso Valdocco, c’era la redazione centrale del quotidiano più antico d’Italia. La mitica Gazzetta del Popolo. Era il mio primo giorno santificato a una professione che avrei mai più abbandonato. Il direttore, Giorgio Vecchiato, mi accompagnò personalmente alla scrivania che mi era stata assegnata. Mi fermò un attimo prima che mi sedessi e disse: “Fai attenzione, su questa sedia ha poggiato il culo per anni Giorgio Bocca e su questa Olivetti ha scritto articoli memorabili. Pensaci sempre e buon lavoro”. Venni assalito da una certa ansia. Un responsabilità enorme. Mi auguro, a questo punto del percorso fatto, di aver onorato in maniera accettabile il nome e le opere di un simile maestro.

    Allora,  io praticante e lui firma prestigiosa de “Il Giorno” diretto da Italo Pietra, l’unico legame sensibile che ci univa a parte la scrivania era rappresentato dalla Juventus. Io, anni prima, ero caduto nella trappola magica di un genio del pallone di nome Omar Sivori e quel sortilegio sarebbe durato per sempre. Lui, il maestro, che pure era stato amico intimo di Valentin Mazzola, Ossola e Gabetto e colori bianconeri sosteneva di portarseli stampati nel dna non per innamoramento ma per autentico amore proveniente da chissà dove. Forse da quella sua Dronero dove erano nati, poi, Pier Cesare Baretti ed Ezio Mauro futuri e bravi direttori di “Tuttosport” e di “Repubblica” juventini anche loro. Sarà l’aria oppure l’acqua, chissà. Una passione e una fede inattaccabili che portarono Bocca a declinare, quando scoppiò lo scandalo di  Calciopoli e la Juventus si trovò nell’occhio del ciclone, teoremi controcorrente rispetto alla linea tenuta dai perbenisti. Non voleva certamente assolvere Luciano Moggi, ma soltanto invitare il mondo del pallone a riflettere molto bene prima di scagliare la prima pietra. Insomma la rivisitazione della parabola della trave e della pagliuzza, inventata da quell’ “uomo” nato il giorno in cui  duemila anni dopo lui sarebbe morto. Non a caso, dunque, la società Juventus inviò alle agenzie di stampa un lungo e accorato comunicato di commiato poche ore dopo l’addio di Bocca a questo mondo.

    La Juventus, infatti, fuuno fra i pochissimi elementi nazionali preservati e difesi da chi aveva il coraggio di dichiararsi “anti italiano” non perché amasse poco o niente il suo Paese ma perché i potenti di quello stesso Paese avevano tradito con i fatti anche i più piccoli sogni e tutte le speranze per la cui realizzazione si erano battuti, molti lasciandoci la pelle, i giovani come Giorgio Bocca. Un evento insopportabile per un uomo e per un giornalista fornito e forte di qualità rare per questo mondo di voltagabbana: la coerenza e l’essenzialità. Mi piace, per questo, paragonarlo a Dino Zoff il campione e la persona che lui adorava. E probabilmente il fatto che il grande maestro abbia voluto farsi tumulare nel piccolo camposanto di La Salle, in Valle d’Aosta, dove da cinque anni riposa ha un significato ben preciso.

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