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  • Ormezzano racconta il Grande Torino (1) - La mia tragedia personale e quella della squadra che restituì orgoglio al Paese

    Ormezzano racconta il Grande Torino (1) - La mia tragedia personale e quella della squadra che restituì orgoglio al Paese

    • Gian Paolo Ormezzano
      Gian Paolo Ormezzano
    Nato come sono nel giornalismo dell’”io c’ero”, quando - senza la televisione – il cronista viaggiava vedeva raccontava per conto di quelli che non c’erano, mi scuso per la prima persona singolare, di norma vietata a me stesso e sconsigliata ai colleghi. Il fatto è che però questa volta è singolare davvero, singolare anche nel senso di particolare, non solo di verbale. Il fatto è che sono settant’anni da Superga e io colludo sentimentalmente con due tragedie, quella corale e la mia.

    Aggancio la mia tragedia alla tragedia corale, la piccola mi serve per spiegare la grande, visto che io non solo c’ero (e andavo verso i quattordici anni) e dopo la Liberazione, tornati in città e alla vita, avevo avuto da mio padre una enorme spinta verso il Grande Torino: “Se non perdi un giorno di scuola, vedi tutte le partite giocate a Torino dai granata”. E fu così, ho visto tutto il Toro capace, sotto la Mole, di non perdere mai, ho visto gli Invincibili, l’ho scritto e riscritto ma persino mi chiedono di ripetermi: credo penso temo infatti di essere rimasto il solo depositario di questo che è diventato un privilegio. Il tempo con le sue squallide ma innegabili valenze anagrafiche impreziosisce quella mia vittoria sui malanni dei ragazzini, conseguita al traino di una fede calcistica.

    Poco dopo le cinque della sera di quel 4 maggio 1949, mi mancò provvisoriamente l’appiglio a quella fede: mio papà in lacrime mi annunciò la fine tragica di quei nostri amici (sotto febbriciattola, ero su una branda nella cucina che fungeva anche da camera mia da letto). Il giorno dopo andai comunque a scuola, il giorno ancora dopo andai con i miei a veder sfilare le bare. Terzo piano di una casa in centro, nell’alloggio di uno zio ricco. C’era una porta preziosa, a due ante di vetri colorati,  detti “cattedrali”, costante in caso di visita l’invito, sbattutomi addosso, a fare attenzione, onde non rompere uno di quei vetri. Quel giorno tutti mi coccolavano, cercavano di lenire il mio pianto, povero bambino, e allora presi una asciugamano e, come avevo visto fare in un film, me lo avvolsi sul pugno e spaccai uno di quei vetri e nessuno mi sgridò, anzi tutti, zio compreso, dissero che ero da capire, col dolore che provavo.

    C’entra eccome, quel mio dolore, con il dolore popolare, nazionale e quasi cosmico, per la tragedia. Perché io, ragazzino, rompendo (finalmenteeeee!) quel vetro feci mio il senso di orgoglio di forza, di invulnerabilità che una squadra calcistica invincibile aveva trasmesso a tutto la gente dell’Italia, dell’ex Bel Paese che, sconfitto in guerra, era diventato il paese delle macerie: a Torino il 70 per 100 delle case erano state distrutte o lesionate dai bombardamenti. Mi sentii qualcuno grazie al dolore esibito e capito, mi sentii divenuto in possesso sinanco del diritto di fare qualcosa di non remissivamente rettilineo e sottomesso, qualcosa di sghembo, di folle, di protervo, di prepotente, di umano.

    Mica c’era tanto altro, allora, per sentirci forti, rispettati, non dico benvoluti ma non più soprattutto sopportati e casomai assistiti. Lo sport, veicolo su cui era facile salire, aiutava eccome, col calcio del Grande Torino ed anche col ciclismo di Bartali e Coppi e con gli azzurri che in tanti sport avevano gareggiato e vinto nella prima Olimpiade del dopoguerra, Londra 1948, su tutti Adolfo Consolini discobolo: l’Italia grazie alla Resistenza ammessa nel mondo dei cinque cerchi come non invece Germania e Giappone perdenti di guerra e condannati a saltare un turno. Miracolo essì dello sport, mentre le nostre pattuglie della cultura e della scienza, confinate o disperse e comunque umiliate dal fascismo, si ricomponevano lentamente, mentre il ”boom” era soltanto un lontano rumore inquietante e non uno scoppio di salute economica, mentre si giocava al gioco nascente della democrazia, fra scontri di piazza dove si rompevano tanti ma tanti vetri. Lo sport era lo zatterone per la navigazione verso la dignità, aveva bravi rematori, quelli del Grande  Torino e non solo, e ci poteva traghettare tutti.

    Ma di quale grandezza speciale, sua, era grande il Grande Torino? Cercherò di ricordarmela bene tutta, per la prossima puntata dedicata a Valentino Mazzola e alla sua splendida banda di giocatori speciali e brave persone.

    (1a parte) 
     

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