Calciomercato.com

  • Ormezzano racconta il Grande Torino (2) - Si diceva che Valentino Mazzola dovesse trasferirsi a Milano...

    Ormezzano racconta il Grande Torino (2) - Si diceva che Valentino Mazzola dovesse trasferirsi a Milano...

    • Gian Paolo Ormezzano
      Gian Paolo Ormezzano
    Detto cioè scritto qui di come e quanto il Grande Torino “lavorò” per la rinascita dell’Italia dalle macerie, per farci e fare scordare la sconfitta bellica, o quanto meno per lasciarla un poco di più indietro, con l’artificio non certo vile o ignobile dello sport corroborante e vittorioso, detto o (mica facile) cercato di dire come e quanto chi scrive queste righe partecipò da ragazzo, nel suo piccolo anzi piccolissimo, quel momento, quel fare, quel nuovo esistere, capisco che debbo cercare di dire terra terra com’era questa squadra che ho visto, dal dopoguerra a Superga, dal vivo in ogni sua recita sotto la Mole.

    Prima cosa: era la squadra di Valentino Mazzola. Il capitano sotto tonsillite (malanno  che non gli vietò la tragica trasferta a Lisbona) non aveva giocato, il 30 aprile 1949, l’ultima partita in Italia, 0 a 0 a Milano contro l’Inter e scudetto praticamente vinto, ma era immanente in ogni partita. Non c’era, quel giorno, a rimboccarsi le maniche e guidare la carica, meglio se su input della trombetta da capostazione del tifoso Bolmida, e fu soltanto un pareggio, ma ormai lui aveva “contagiato” in positivo  la squadra. Dicevano a noi tifosi che sarebbe passato a una squadra di Milano in quell’estate, lui lombardo, lui a Torino con due mogli (premi doppi, era il più forte e teneva famiglia doppia, ho visto il taccuino/contratto mostratomi dal presidente Ferruccio Novo con le firme approvanti dei compagni), nessuno ci credeva, comunque lui ormai aveva pervaso di sé la squadra.  

    Tenevo pochi anni, mio padre prolungò una pennichella domenicale e arrivammo al Filadelfia che la Lazio conduceva per 3 a 0, scoppiai in lacrime, mi sentivo colpevole di un’assenza iettatoria, rimproverai papà che mi disse di stare sereno, ci avrebbe pensato Mazzola e così fu, 4 a 3 per il mio Toro.

    Mazzola non era il più dotato di classe, Maroso giocava in maniera più bella, apollinea. Mazzola correva meno di Loik, tirava meno bene di Menti, di Castigliano, di Grezar, non aveva le magie di testa e di piedi  dell’acrobatico artista Gabetto e la tecnica euclidea di Ossola, non sfoggiava la fisicità possente di Ballarin e Rigamonti, la superagilità ordinata di Bacigalupo. Semplicemente aveva un po’ tutto di tutti, a fare di lui “il giocatore più straordinario e più completo e più utile ad una squadra da me mai visto” (Giampiero Boniperti dopo avere visto Di Stefano e Pelè, Sivori e Cruyff, Maradona e Platini, e anche un bel po’ ormai di Messi e Ronaldo).

    La squadra detta unanimemente Grande Torino era operaia nel senso di lavoro di gruppo, e guarda un po’ in tempo di guerra era diventata Torino Fiat, onde dare ai calciatori una qualifica lavorativa che evitasse la deportazione nelle officine germaniche. La squadra era aristocratica per nobiltà di atteggiamenti in campo (ricordo una sola rissa: in un derby, quasi un balletto). La squadra non coltivava schemi picassiani, tattiche furbastre, neanche Mazzola si rivolgeva con piglio sfrontato all’arbitro. Non era pirotecnica ma neppure cinica, era una squadra/squadra. Bacigalupo era diventato il primo portiere d’Italia ispirandosi a Sentimenti Iv della Juventus, suo idolo prima, suo esempio poi, anche se gli aveva tolto il posto, unico azzurro non granata, in una partita della Nazionale/Toro vittoriosa a Torino sull’Ungheria (e nel portafoglio bruciacchiato di Bacigalupo, trovato a Superga, c’era una foto con dedica di Sentimenti).

    Mi chiedono se quel Toro vincerebbe ancora oggi. Penso di sì, ma con più fatica e molto più rischio di vedere vanificata la sua superiorità di gruppo, il suo essere coacervo di bravi ragazzi, in qualche tristo modo extrasportivo (superinterventi economici, chimica spinta, aggressioni non necessariamente fisiche). Ma si deve anche dire che una squadra così forse non potrebbe più nascere, perché in questo porco mondo sono sempre meno i giocatori di quella stazza mentale e morale, sempre più sono le dopanti seduzioni “extra”, sempre più intense sono le condizionanti magie mediatiche, sempre più “the show must go on”: e quello del Gande Torino non era soltanto uno show, era un altissimo atto sportivo, era un perfetto lavoro sportivo, era il riflesso sportivo della vita che quei tempi duri imponevano ma anche permettevano, assecondavano, fertilizzavano: in attesa si capisce di qualche vita migliore, travestita da benessere o da chissacché.

    (2a e ultima parte)
    Leggi qui la prima: ​Ormezzano racconta il Grande Torino (1) - La mia tragedia personale e quella della squadra che restituì orgoglio al Paese
     

    Altre Notizie