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  • 'Se questi sono ultras...': le curve rischiano di morire di criminalità
'Se questi sono ultras...': le curve rischiano di morire di criminalità

'Se questi sono ultras...': le curve rischiano di morire di criminalità

  • Andrea Antonioli
Le curve rischiano di morire di criminalità.

Il calcio è della gente, si sente spesso ripetere secondo un ritornello abusato che, come tutte le frasi fatte, vuol dire poco e niente. Si intende però che il calcio nella sua essenza appartiene ai tifosi, in quanto nasce e prospera per loro merito. Pù volte abbiamo ribadito questo concetto, concentrandoci da sempre sul pallone come fenomeno sociale piuttosto che come show o intrattenimento. Più volte ne abbiamo evidenziato gli aspetti profondamente umani come l’appartenenza e la rappresentanza, lo schierarsi e anche le modalità guerresche, la comunità e l’unione. E ancora più in là, tante e tante volte abbiamo preso posizione “in difesa” degli ultras sui quali mediaticamente si spara a prescindere, in una caccia alla croce rossa che si presta ad interessi maggiori, e che trova nei suddetti ultras il capro espiatorio perfetto.

Tuttavia noi siamo nati per interpretare i fatti, per provare ad essere una voce originale e fuori dal coro. E allora sul tema non possiamo farci invischiare nella dicotomia delle opposte fazioni, tra chi vuole stadi-teatro con prezzi alle stelle e chi porta avanti pregiudizialmente la linea giustificazionista, per cui gli ultras sarebbero gli ultimi interpreti rimasti dell’autenticità, vittime di una ingiustificata e soffocante repressione. Dobbiamo allora necessariamente distinguere, soprattutto di questi tempi, il “Che cosa” dal “Chi”. Il che cosa riguarda il tifo, la nascita del movimento e i suoi primi passi, e ci trasporta in una visione del mondo estremamente affascinante che si traduce in forme estreme di supporto e sostegno alla squadra; gli ultras nascono con obiettivi nobili e con un codice di leggi non scritte, e per decenni nel nostro Paese (così campanilistico) hanno colorato gli stadi di tutta la penisola rimettendoci in soldi e salute, e rendendo il calcio ogni settimana un po’ più vivo.

Ultras del Cosenza negli anni ’80

Il Che cosa però in fondo è determinato dal Chi, ed è su questo che ci dobbiamo interrogare se non vogliamo cadere nella propaganda degli “opposti estremismi” (stadi-teatro o ultras vittime). La tesi di base di Valerio Marchi – sociologo, studioso di movimenti giovanili e ultras, e anche autore di diversi libri sul tema – è che le curve siano una cartina di tornasole delle società: condividiamo in pieno questa idea, e allora, per quanto riguarda i settori più caldi del tifo, non possiamo sottovalutare il mutamento antropologico che si è verificato in Italia negli ultimi decenni.

Era circa la metà degli anni ’70 quando il movimento ultras in Italia si stava affermando e Pier Paolo Pasolini, poco prima di morire, proponeva le sue letture tanto lucide quanto strazianti dei profondi cambiamenti verificatisi nel popolo italiano (soprattutto nei proletari e nei sottoproletari, che abbandonavano le proprie tradizioni – e la propria stessa classe sociale – per votarsi interamente alla “civiltà” dei consumi fino ad estinguersi).

“È cambiato il «modo di produzione» (enorme quantità, beni superflui, funzione edonistica). Ma la produzione non produce solo merce, produce insieme rapporti sociali, umanità. Il «nuovo modo di produzione» ha prodotto dunque una nuova umanità, ossia una «nuova cultura»: modificando antropologicamente l’uomo, nella fattispecie l’italiano”. (Pier Paolo Pasolini, «Corriere della Sera», 30 Ottobre 1975)

Dicevamo lucidi e strazianti perché fa impressione riprendere gli estratti pasoliniani: proprio negli anni in cui tanti intellettuali progressisti discorrevano di concetti vuoti ed astratti, del Che cosa – inaugurando una spaccatura che è poi esplosa ai giorni nostri, per cui gli intellettuali sono diventati una retroguardia conservatrice -, Pasolini urlava solo contro tutti (o quasi) di concentrarsi sul Chi, sui nuovi volti sempre più cattivi dei sottoproletari romani, sugli efferati reati in aumento nelle borgate, sulla crudeltà che iniziava a dilagare, diventando la regola e non più l’eccezione. Guardando gli ultras di oggi è difficile non ripensare a Pasolini, a quegli articoli disperati, a quegli appelli lanciati e strillati, ma caduti nel vuoto. Guardando troppi ultras di oggi è difficile non vedere dei criminali o criminaloidi senza alcun retroterra, vittime non della repressione del sistema ma del tardo-capitalismo, che ha generato mostri.

A proposito di sparare sulla croce rossa, in effetti…

Ai giorni nostri sono molti “ultras” i primi ad aver tradito la propria “missione” o il proprio codice: non intendiamo fare i perbenisti, e dunque non ci riferiamo certo alla violenza in sé o allo scontro, che è un aspetto imprescindibile del movimento (anche se, ci permettiamo di aggiungere, a determinate condizioni, insomma secondo delle regole non scritte ma note a tutti). Parliamo invece della corruzione, di legami sempre più stretti con le società che diventano occasione di facili guadagni – leggasi bagarinaggio –  ma soprattutto delle infiltrazioni mafiose e criminali che sono diventate la norma e non più l’eccezione. Tutti noi abbiamo visto l’inchiesta di Report, che ci ha portato all’interno della curva bianconera, diventata terra (desertica) di conquista di ‘ndrangheta e mafia. Ma potremmo citare tanti altri casi in cui i padroni della curva sfruttano e prosciugano l’immaginario ultras per piegarlo ai propri interessi.

“Ma la regola riguardante la massa, cioè i milioni di giovani italiani, è la regola della degradazione. E a Roma, appunto, lo è in modo intollerabile. Guardate le facce dei due fratelli Carlino (che hanno assassinato un automobilista, per ragioni di traffico, massacrandolo e spaccandogli la testa sopra l’asfalto). Non vedrete le orribili, pallide, sfigurate sbavanti facce di due assassini: ma vedrete le facce dell’intera gioventù popolare romana. A Torpignattara – dove i due sono nati e vissuti – ormai la maggioranza dei giovani è come loro”. (Pier Paolo Pasolini, «Corriere della Sera, 9 settembre 1975)

Scriviamo da Roma, dalla degna capitale d’Italia: non intendiamo generalizzare facendo un torto a tante realtà complesse, ma per quanto riguarda questa città il mutamento antropologico allo stadio è stato evidente e feroce. Basta vederli in volto, come diceva Pasolini, per comprendere la portata del cambiamento epocale avvenuto nel nostro Paese negli ultimi decenni: perdonateci se risultiamo un po’ lombrosiani, ma è sufficiente osservare qualche “vecchio” documentario sui primi anni del movimento ultras per notare la differenza. Anche nei gruppi maggiori e più rispettati spesso a comandare erano dei “pischelli” – come si dice da queste parti – assolutamente normali, con volti espressivi, sinceri e soprattutto non ancora segnati: gli stessi ragazzi che oggi magari iniziano da adolescenti a vestirsi casual, che hanno la camera tappezzata di adesivi della curva e ne ripetono a pappagallo gli slogan, non rendendosi conto che il loro amore sincero diventa manovalanza per dei criminali a tutti gli effetti.

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